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tutte le recensioni letterarie di questo blog

- I Frutti Dimenticati - Cristiano Cavina

- Per Tutte Le Altre Destinazioni - Fabrizia Pinna

- Il Delitto Dei Giusti - André Chamson

- Racconti A Vita Bassa(1) (2) - Nicola Sacco

- Madri E Figli - Colm Tòibìn

- Gomorra - Roberto Saviano Countinua a leggere »

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È come sommare le pere con le mele, ce lo so

Speciali classifiche sacchiano/nicholiste limitatamente a quanto da me fruito nel 2012. Chi avesse voglia di esprimere un’opinione o un dissenso, è bene sappia che avrebbe senso farlo solo relativamente all’ordine e alle posizioni di classifica da me assegnate alle varie opere, e non per farci entrare quello che non ho letto né visto né sentito – si tenga presente, inoltre che il criterio ordinatore è assunto su base 2012 non in quanto anno di pubblicazione/realizzazione delle opere in parola, ma in quanto anno della mia personalissima ricezione. Tuttavia, chi avesse voglia di esprimere critiche e opinioni di varia natura, sappia che quelle che non hanno colleganza o senso sono anche più gradite delle altre.

NARRATIVA

  1. Moby DickHerman Melville
  2. Novelle RusticaneGiovanni Verga
  3. A caso –Tommaso Landolfi
  4. Questa è l’acquaD. F. Wallace
  5. Last Love ParadeMarco Mancassola
  6. I Malavoglia –Giovanni Verga
  7. D’un château l’autreLouis-Ferdinand Céline
  8. ReduceGiovanni Lindo Ferretti
  9. Todo modo – Sciascia
  10. Conversazione in Sicilia – Elio Vittorini

Maglia nera: Atti innaturali, pratiche innominabiliDonald Barthelme, Io e teNiccolò Ammaniti

LIBRI VARIA (Saggistica, teatro, altro)

  1. Sunset LimitedCormac McCarthy
  2. Lettere Luterane Pier Paolo Pasolini
  3. Passione e ideologiaPier Paolo Pasolini

Maglia nera: In vino veritasSøren Kierkegaard

CINEMA

  1. Faust
  2. The Sunset Limited
  3. Pietà (regia di Kim Ki-Duk)
  4. Il sospetto (regia di F. Maselli)
  5. Cesare deve morire
  6. Todo modo
  7. Un gelido inverno
  8. Hunger
  9. Dogtooth
  10. Drive
  11. Coccodrillo (regia di Kim Ki-Duk)

Maglia nera: L’enigma di Kaspar Hauser

le torsioni dell'anaconda

restare fermi passin passetto

Il bisogno di seppellire i morti e la necessità ineludibile di dar corso a ai connessi rituali di lavaggio, ricomposizione e vestizione della salma, nonché la scrupolosa tradizione di manutenzione del sepolcro, sono in relazione di totale identificazione con la medesima ineludibile necessità che si prova di coprire il buco osceno, fetido, corruttore e mistificatore della morte. La morte deve essere ricoperta di fulgidi panneggi, preziosi tessuti, risplendenti abiti (i migliori che siano appartenuti al defunto). Perché questa è la Pietà. Mai ebbi e constatare che pietà l’è morta. Sbalorditiva impostura. Mai nella mia vita, mai nella comunità in cui vivo. Tutto ci parla della meravigliosa vicenda dell’uomo su questa terra, del compimento di umanità cui è chiamato (Hereafter, Departures, Michele Misseri, Un tram che si chiama desiderio, vitemarie e punticorradi in anaconda, Suttree pagg.. 178-182, gli zombies di Romero, i fortunato loperfido e sigismondo criscuolo), del nostro obiettivo di civiltà ormai già ben più che traguardato nella notte dei tempi (Antigone e i giudaico-cristiani imperativi ormai mitici). Cosa che equivale a dire che, meravigliose rappresentazioni di Clint Eastwood Yojiro Takita e Nicola Sacco a parte, è dalla notte dei tempi che non c’è progresso di civiltà, non è dato esserci. Non è dato Esserci.

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Dilatata pupilla

Ho rimeditato a lungo lo scioglimento dei dilemmi posti nell’articolo precedente, giungendo alla conclusione che se avessi azzardato delle risposte avrei finito per incasellare temi e trinciare giudizi ai quali avrei potuto anche impiccarmi. Inoltre mi sembrava di tornare su argomenti da me già fritti precedentemente a proposito dell’irriverenza verso verità precostituite e della necessità di mettere in discussione anche quanto si crede di aver guadagnato alle proprie certezze. Temevo di ripetermi e annoiare, insomma. Incasellare è un po’ morire e non è un caso che abbia accusato un impeto di inaridimento, un blocco che finora non avevo mai sperimentato proprio laddove cercavo di fare giù un discorso organico. Decidevo, pertanto, che ero uno incapace a statuire alcunché.

Dice: “allora te scrivi e scrivi ma non hai un progetto sulla lingua”. Bon, a parte che sulla lingua affettivamente non avrei un progetto ma una carta geografica, quella sì … Bon, potrebbe anche darsi. Se proprio oggi dovessi postulare ‘per i capelli’ qualcosa, direi una roba deludente tipo che la letteratura per me è uno sguardo, anzi più che uno sguardo quasi un’occhiata distratta sull’orizzonte del narratore, un racconto appunto senza alcun progetto e nemmeno messo in moto da chissà quale intenzionalità.

La mediazione dell’io che batte. Le lettere. Sulla tastiera. Non magistero della parola, ma trattativa, più che intrattenimento, da marchettaro con la lingua, inteso come caccia all’utile espressivo più immediato – forse per questo si dice “nell’economia del testo … etc., etc.”. Questa mediazione ha qualche rilevanza in quanto quell’io si è formato su altre letture. Da cui perverrei alla banalità che la funzione della letteratura è tutta nell’essere letta. Questa mediazione è degna di attenzione se l’io che la conduce mostra i crismi della genialità. E avendo sostenuto la distrazione dello sguardo, per genialità intendo il culo di ritrovarsi a guardare le cose (per raccontarle) da un punto di vista inedito. Il culo, perché ogni bravo proposito nella scelta dell’osservatorio mi risulta essere fallimentare. Questa la ragione, secondo me, per cui durante tutto il 2010 son stato lì a dire che la massima espressione letteraria dell’anno era Suttree che si muoveva sul suo “schifo” a pelo di melma e di detriti, da lì guardando la vita mentre accadeva sulle rive del fiume. Un movimento più geniale di ogni altro movimento di macchina, steadicam o dolly che sia. Un debito contratto con la cinematografia degli albori, quando i primi macchinicchi manovellati venivano sistemati su un battello della Senna o su un trenino, e via andare, il vedutismo, ma col valore aggiunto della grande tradizione letteraria americana palpitante e scalciante per sgorgare via dalla penna del McCarthy.

Alla fine mi è sembrato che la verità della letteratura sia la primigenia botta di culo nella genesi dei libri che sono poi stati in grado di scavallare i decenni e i secoli in virtù della loro preterintenzionale capacità di spoliazione dell’animo umano. Ovviamente diremo RAUS! ai libri scritti col culo degli altri (quelli più premeditati e al fondo cinici e disonesti nonostante il grande fascino dell’autore seduttore e cretino), ma questa è un’altra storia.

Ad ogni buon conto, ringrazio la lettrice Anna V. per la cortesia che mi ha usato di raccogliere i quesiti che io ponevo e per la qualità delle sue risposte. Apprezzo particolarmente, e sento molto vicino a me, il relativismo da lei mostratoci circa “la verità di chi scrive accolta nella verità di chi legge”. Si scrive per poter dire “io” mentre si compie l’azione perfetta dello scrivere: io mi responsabilizzo con le parole di cui dispongo, pongo in essere un linguaggio e giuro che quelle parole non siano vane: pongo una relazione etica – l’unica possibile dentro questo universo - tra me che significo e significato. Adesso però, il tardoccone che scrive si aspetta anche un chiarimento sul diritto di scrivere ‘vongole’.

Ad ogni buon conto due: lo sguardo. È un filo di crepa che tradisce sempre l’autobiografia, anche quando l’autore le prova tutte per rimpicciolirsi e scomparire. Lo sa bene un critico letterario come Giuseppe Giglio, il quale non per caso colloca in esergo al suo libro, I piaceri della conversazione – Da Montaigne a Sciascia: appunti su un genere antico, queste parole di Sciascia: “Uno scrittore, quale che sia la forma o il genere in cui si esprime, non si confida e confessa sempre? Nella sua opera non c’è già ogni confidenza, ogni confessione? Ogni buon lettore non è in grado di estrarle e farne testimonianza?”.

Ora, per chi non fosse soddisfatto del gran quaquichigghio che effettivamente ho qui combinato, giocando presuntuosamente con concetti di cui potrei non essere all’altezza, il libro di Giuseppe Giglio, vincitore dell’ultima edizione del premio Cardarelli come migliore opera prima di critica letteraria, costituisce sicuramente il luogo ideale in cui cercare possibili risposte alle domande che ci siam fatti. Non che Giglio incaselli o trinci giudizi, come sopra ho paventato, anzi, rischiara, e di molto, le idee e senza assumere un tono oracolare. Le sue conversazioni - il concetto, la chiave, della conversazione - vengono ad essere un’intuizione di non poco momento per la critica letteraria: tanto la stesura di un dialogo all’interno di un testo letterario costringe l’autore a prendere ” in considerazione le diverse opinioni possibili”, procedendo “a sostituire dogmi e preghiere” (Borges), tanto la conversazione è “un sistema – che rifiuta ogni sistema – di leggere il mondo, di capirlo […]” (Sciascia). Credo che una siffatta impostazione rappresenti un inedito quanto encomiabile bagno di umiltà oltre che un metodo sempre auspicabile per la critica letteraria, un segnale di ritorno entusiastico alla lettura, lettura e riflessione e giudizio nei quali si è smesso una buona volta di spingere avanti i propri preconcetti, in una cornice di ritrovato rispetto per gli scrittori. Se sussistono queste condizioni allora si può negare che la letteratura sia un risultato esclusivo dell’autore, per affermare invece la Letteratura come intelligenza del critico con lo scrittore.

Per appagare quindi la curiosità su come si tiene insieme un discorso critico ambizioso locupletato delle voci di alcuni dei più ‘grandi’ scrittori della storia (Montaigne, Stendhal, Pirandello, Brancati, Savinio, Borges, Alvaro, Sciascia, Durrenmatt e altri ancora) non posso far altro che rimandare alla lettura delle loro conversazioni con Giuseppe Giglio:

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Summa ludica

Redigo, per gioco, la mia personale classifica dei libri letti nel 2010.

Ho pensato così: tre sezioni, una per l’attualità narrativa, una per la saggistica, una per i classici, ed i primi 5 classificati per ogni sezione.

Benché queste griglie non pretendano d’essere niente altro che un bilancio (neanche molto esaustivo) delle mie scelte nella veste di lettore - e in quanto scrittore, lettore in caccia di oggetti particolari, per sentieri contorti quandoché imperscrutabili –, sarei altresì curioso di calcolare medie ponderate con le panoplie dei libri più amati dai lettori di questo blog.

Precisazione: la sezione attualità non è appannaggio di libri pubblicati esclusivamente nel 2010 e mischia gli italiani con gli stranieri. Inoltre, la stessa risente della penuria delle letture fatte sulle pubblicazioni più recenti, essendomi dedicato molto di più ai classici. Questa la ragione per cui figura il dimenticabile Sorrentino. E d’altra parte, al quinto posto meglio lui che la terrificante inconsistenza di Io e te di Niccolò Ammaniti.

Attualità narrativa:

  1. SuttreeCormac McCarthy
  2. Tutta mio padreRosa Matteucci
  3. Signore e signoriAlan Bennett
  4. Ragioni per vivereAmy Hempel
  5. Hanno tutti ragionePaolo Sorrentino

Classici:

  1. Viaggio al termine della notteLouis Ferdinand Céline
  2. L’AdalgisaCarlo Emilio Gadda
  3. Morte a creditoLouis Ferdinand Céline
  4. GerminaleÉmile Zola
  5. FuroreJohn Steinbeck

Saggistica:

  1. Le AntigoniGeorge Steiner
  2. Scritti corsariPier Paolo Pasolini
  3. Sensi vietatiMassimo Onofri
  4. L’ingegnere in bluAlberto Arbasino
  5. Come scrivere un best seller in 57 giorniLuca Ricci

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L’innestatore

Ho idea che Cormac McCarthy si sia come ingaggiato a immaginare la vita di Tom Joad dopo che questi ha abbondonato la sua famiglia in California. Ho idea che abbia preso quest’uomo, lo abbia ribattezzato Cornelius Suttree e calato nel 1951 a Knoxville, Tennessee.

Nel romanzo di Steinbeck ci sono dei frammenti che giuntano il testo paragonabili a delle odi corali, benché prive di strofe e antistrofe, dalle quali scaturisce vento epico che soffia su tutta l’odissea dei Joad, della Famiglia. Ho idea che McCarthy invece abbia riconsiderato questi perni che rammendano la “notte” dei Joad nella loro lunga traversata verso la sconfitta, e li abbia fusi facendoli colare e rapprendere come oro lirico sulle figure del suo teatro d’ombre.

Allo stesso modo il grande romanzo americano transita da una tradizione “socialista” in cui si rappresentano le vicende, diremo collettive, dei più deboli in lotta per la sopravvivenza e contro nemici sempre più grandi e imbattibili, alle sacrosante pippe individuali del singolo irredento, inassolto, malvissuto e poeta.

Con tutto questo c’entra qualcosa il dire che Victor Hugo ed Émile Zola (il mistero della fruttificazione del seme avvicina Germinal e Steinbeck in un modo a mio parere evidentissimo) sono meglio di Marx e Lenin? E a suffragare questa considerazione può servire la ricchezza di sfumature proprio in The Grapes of Wrath, dove convivono un Casy predicatore che spretandosi diventa il più comunista di tutti, e una voce molto più cosciente di quella di un banale sindacalista, che non smette di parlarci dell’ostinazione a vivere e di quella costante dell’uomo che è il perenne suo sussulto di vitalità, quantunque egli sbagli, inciampi e retroceda di “un mezzo passo, mai di un passo intero”, concludendo che in quel passo così faticoso risiede il progresso dell’umanità?

Mi sa che si deve passare di qui, da questi libri, per vedere dove si formano per la prima volta le immagini che, imprimendosi definitivamente nella percezione di ciò che è America, diverranno topiche: scassoni su strade liquefatte dal caldo, uomini accoccolati sui talloni che tracciano segni nella polvere con un fuscello, sgualdrine, puttane, mestatori, grassatori di strada, “delitti che trascendono ogni denuncia”, zotici, trincatori e quadrincatori, derelitti e ratti e negri e galeotti. Si può anche passare per un film di John Ford che una grande fotografia di un espressionistico bianco e nero fa aderire bene al Furore che si legge, film a cui, però, non potrò mai perdonare la mutilazione dell’ultima grandiosa immagine del libro. Avranno anche avuto problemi di censura, o di varia natura, durante la realizzazione della pellicola, ma non si può soprassedere su una scena così potente e straziante, fondamentale nel racchiudere tutto il senso di quanto si è scritto, senza svuotare di significato il solo aver pensato di poter tirare via un film da cotanto romanzo.

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intra cotenna

E a cosa somiglia questo processo di rappresentazione affidato a spostamenti più o meno regolari (nel tempo e nello spazio) del punto di osservazione se non a quei “movimenti di macchina” che vengono a costituire il valore aggiunto del linguaggio cinematografico? Questo è proprio il cruciale momento dell’apparentamento, della contaminazione reciproca ormai imprescindibile tra le due arti, dello squagliamento dell’una nell’altra, dell’incesto tra sorelle che nei risultati più “alti” dimentica primogeniture, abroga autorità e presunte supremazie.

Però questo post nasce per dire dell’altro, una notazione di servizio. Se cominciate a leggere questo libro qui vi avviso di una cosa: arrivati a pag. 178 dovete decidere se permettere a una mano, a delle dita cattive, di insinuarsi sotto la vostra cotenna e di mettersi a impastare la materia cerebrale, a rovistare con insistenza nelle sedi del dolore. Continuate a leggere solo se accettate questo. Senza contare che fino a pagina 182 ci sono delle cose che c’entrano parecchio con le mie – o, più rispettosamente, il viceversa.

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il mio Suttree

ecco, questo, forse: si scrive per dinamizzare il punto di vista su acque nere stagnanti. per edificare un viadotto a sovrastare una gola in fondo alla quale scorrono i liquami.  per posare delle condotte nella vita e farci passare la verbalizzazione. per articolare con parola anche il mondo preverbale. questo il movente. le posizioni da cui si osserva invece attengono al piano delle scelte stilistiche: da sopra, da sotto, dal di dentro, dal lato. ognuno come può. il vecchio Cormac meglio di molti mentre voga dal suo “schifo”.

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Violence

Lo scrivere mio è cimentarsi con le aspirazioni sballate di un’epoca. Interrogare - a vuoto - il vuoto da capogiro che si è creato dopo che gli uomini hanno distorto radicalmente tutti i miti fino a squinternarli del tutto, fino alla loro scomparsa. Grandi narrazioni, ed esemplari, prima pervertite, poi buttate via perché ci si è accorti che per come erano ridotte non si sapeva più cosa farsene. Delle quali non si è serbato niente. Neanche una minuscola traccia. Tutto dimenticato a beneficio esclusivo dell’horror vacui. Un po’ quello che è avvenuto in politica con la consunzione delle grandi ideologie, dipinte da certi soloni come grandi narrazioni. Per l’appunto. Ma pure grandi tagliole.

Tralascio qui il discorso politico e mi attesto più su letteratura e cinema perché ritengo che, come sempre accade, solo queste riescano a segnalare i tratti più allarmanti, anzi angosciosi, del tempo presente che anche il sottoscritto (su scartoffie chissà mai da pubblicare) si sforza di raccontare.

L’impoverimento espressivo dilagante o la generale volgarità dei comportamenti umani, in fondo sono il meno. Pura manifestazione esteriore della violenza bestiale che c’è sotto e che percuote incessantemente il sistema di regole che pretendeva di tacitarla. Di più, i nuovi sistemi di regole sono concepiti per scoperchiare del tutto questa forza animalesca e ancestrale, ideati e orchestrati da soggetti emersi d’impeto prima ma ormai tutt’uno con essa. Quello che lotta per prevalere sulla civiltà non è il grado zero dell’umanità. Ma il Meno di zero di Bret Easton Ellis.

La violenza che sbocca è autistica. Come quella del cacciatore di taglie in Dead Man, di Jim Jarmusch. Di questi si favoleggia che abbia stuprato il padre e la madre e che poi ne abbia mangiato i corpi. Per tre quarti della pellicola pare una stramberia che non merita neanche tanto credito ma in due scioccanti punti del film il bandito si rivela tal quale lo aveva dipinto questa specie di leggenda massacrando i suoi compagni d’arme. O ancora lo psicopatico di Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy. La sua furia assassina non ha una ragione e non può essere spiegata. Solo il culo di non incontrarlo sulla tua strada ti può salvare.

Nella valle di Elah un veterano del Vietnam, così somigliante allo sceriffo di McCarthy, deve andare ben oltre la riflessione sugli orrori della guerra. Le diverse declinazioni sulla gratuità del male, variazioni contemporanee sulla banalità cui spesso si accompagna, fanno letteralmente a pezzi l’anima di un padre e dello spettatore. Paul Haggis, sceneggiatore sommo, è il ponte che ci conduce a Clint Eastwood (sono stati collaboratori in Million Dollar Baby) e al suo Gran Torino. Quale brivido insostenibile genera la scena in cui la ragazza rientra tumefatta, massacrata di botte da una banda di bulli del quartiere popolato da immigrati asiatici. Eppure McCarthy, Haggis e Eastwood fin qui possono ancora far sentire la loro fievole voce e ricordare come un tempo, forse, poteva essere diverso. Etica, onore e rispetto, orgoglio. Un senso, in definitiva.

E invece insensato e ottuso è Brad Pitt nella prosecuzione naturale della trasposizione cinematografica di Non è un paese per vecchi: Burn After Reading. L’icona ebete dell’opera è anche la perfetta sintesi del perfetto coglione, senza passato e senza futuro, un presente ristrettissimo, che prolifera nell’odierna società. Anche questo film è pervaso di violenza, e appresso a questa corre, abbracciata mortalmente, la scemenza.

Se un tempo i film horror lasciavano senza fiato oggi i film noir lasciano senza parole. Mappano esistenze già prive di linguaggio o di qualsivoglia codice comunicativo . Esistenze che rispondono raramente agli stimoli, ma soprattutto imprevedibilmente e violentemente.

Si può desiderare la morte di qualcuno che non è un tiranno o un sadico padrone delle nostre vite ma solo un ostacolo, peraltro rimuovibile con minimo sforzo, al perseguimento del nostro scopo. E non avere percezione dell’abiezione di un tale sentimento.

Si vive disorientati in un ambiente interamente disturbato. Si può smembrare un uomo con un trinciapollo e essere soddisfatti di un lavoro pulito.

The Wrestler non poteva che essere Mickey Rourke. Non poteva che essere lui il protagonista del gran guignol allestito da sua maestà la violenza. La quale adesso si permette il lusso di autoinscenarsi. E sghignazzare sfavillante mentre si gode l’effetto che fa.

Le potenze buie della reazione.

Qua non siamo in presenza di figli frutto del loro tempo. Qua siamo dentro un Tempo che divora i propri figli. Non gli dèi che accecano coloro che vogliono perdere. Ma dèi accecati che accecano e perdono indiscriminatamente chiunque gli capiti a tiro.