letteraria

Una realtà che levati

Non si ammette irrealtà della parola scritta (vergata nel Romanzo o nella Poesia da uno Scrittore) in quanto nella vita del genere umano non v’è niente di più reale. Più reale anche al cospetto della vita comunemente detta reale. Anzi, se c’è qualcosa di irreale nella vita del genere umano questo qualcosa è proprio la vita reale (comunemente detta), spesso condotta in modalità ’strambare’, appoggiata o impostata su sogni loffi o un po’ sballati, nella migliore delle ipotesi; delirante e segnatamente da incubo, nella peggiore.

Il libro di Giuseppe Giglio viene anche a ricordare queste parole di Vitaliano Brancati: “Il mondo è fatto di buoni libri: senza di essi, dietro di noi non ci sarebbe nulla; il mondo comincerebbe ogni mattina per finire la sera”.

letteraria

Dilatata pupilla

Ho rimeditato a lungo lo scioglimento dei dilemmi posti nell’articolo precedente, giungendo alla conclusione che se avessi azzardato delle risposte avrei finito per incasellare temi e trinciare giudizi ai quali avrei potuto anche impiccarmi. Inoltre mi sembrava di tornare su argomenti da me già fritti precedentemente a proposito dell’irriverenza verso verità precostituite e della necessità di mettere in discussione anche quanto si crede di aver guadagnato alle proprie certezze. Temevo di ripetermi e annoiare, insomma. Incasellare è un po’ morire e non è un caso che abbia accusato un impeto di inaridimento, un blocco che finora non avevo mai sperimentato proprio laddove cercavo di fare giù un discorso organico. Decidevo, pertanto, che ero uno incapace a statuire alcunché.

Dice: “allora te scrivi e scrivi ma non hai un progetto sulla lingua”. Bon, a parte che sulla lingua affettivamente non avrei un progetto ma una carta geografica, quella sì … Bon, potrebbe anche darsi. Se proprio oggi dovessi postulare ‘per i capelli’ qualcosa, direi una roba deludente tipo che la letteratura per me è uno sguardo, anzi più che uno sguardo quasi un’occhiata distratta sull’orizzonte del narratore, un racconto appunto senza alcun progetto e nemmeno messo in moto da chissà quale intenzionalità.

La mediazione dell’io che batte. Le lettere. Sulla tastiera. Non magistero della parola, ma trattativa, più che intrattenimento, da marchettaro con la lingua, inteso come caccia all’utile espressivo più immediato – forse per questo si dice “nell’economia del testo … etc., etc.”. Questa mediazione ha qualche rilevanza in quanto quell’io si è formato su altre letture. Da cui perverrei alla banalità che la funzione della letteratura è tutta nell’essere letta. Questa mediazione è degna di attenzione se l’io che la conduce mostra i crismi della genialità. E avendo sostenuto la distrazione dello sguardo, per genialità intendo il culo di ritrovarsi a guardare le cose (per raccontarle) da un punto di vista inedito. Il culo, perché ogni bravo proposito nella scelta dell’osservatorio mi risulta essere fallimentare. Questa la ragione, secondo me, per cui durante tutto il 2010 son stato lì a dire che la massima espressione letteraria dell’anno era Suttree che si muoveva sul suo “schifo” a pelo di melma e di detriti, da lì guardando la vita mentre accadeva sulle rive del fiume. Un movimento più geniale di ogni altro movimento di macchina, steadicam o dolly che sia. Un debito contratto con la cinematografia degli albori, quando i primi macchinicchi manovellati venivano sistemati su un battello della Senna o su un trenino, e via andare, il vedutismo, ma col valore aggiunto della grande tradizione letteraria americana palpitante e scalciante per sgorgare via dalla penna del McCarthy.

Alla fine mi è sembrato che la verità della letteratura sia la primigenia botta di culo nella genesi dei libri che sono poi stati in grado di scavallare i decenni e i secoli in virtù della loro preterintenzionale capacità di spoliazione dell’animo umano. Ovviamente diremo RAUS! ai libri scritti col culo degli altri (quelli più premeditati e al fondo cinici e disonesti nonostante il grande fascino dell’autore seduttore e cretino), ma questa è un’altra storia.

Ad ogni buon conto, ringrazio la lettrice Anna V. per la cortesia che mi ha usato di raccogliere i quesiti che io ponevo e per la qualità delle sue risposte. Apprezzo particolarmente, e sento molto vicino a me, il relativismo da lei mostratoci circa “la verità di chi scrive accolta nella verità di chi legge”. Si scrive per poter dire “io” mentre si compie l’azione perfetta dello scrivere: io mi responsabilizzo con le parole di cui dispongo, pongo in essere un linguaggio e giuro che quelle parole non siano vane: pongo una relazione etica – l’unica possibile dentro questo universo - tra me che significo e significato. Adesso però, il tardoccone che scrive si aspetta anche un chiarimento sul diritto di scrivere ‘vongole’.

Ad ogni buon conto due: lo sguardo. È un filo di crepa che tradisce sempre l’autobiografia, anche quando l’autore le prova tutte per rimpicciolirsi e scomparire. Lo sa bene un critico letterario come Giuseppe Giglio, il quale non per caso colloca in esergo al suo libro, I piaceri della conversazione – Da Montaigne a Sciascia: appunti su un genere antico, queste parole di Sciascia: “Uno scrittore, quale che sia la forma o il genere in cui si esprime, non si confida e confessa sempre? Nella sua opera non c’è già ogni confidenza, ogni confessione? Ogni buon lettore non è in grado di estrarle e farne testimonianza?”.

Ora, per chi non fosse soddisfatto del gran quaquichigghio che effettivamente ho qui combinato, giocando presuntuosamente con concetti di cui potrei non essere all’altezza, il libro di Giuseppe Giglio, vincitore dell’ultima edizione del premio Cardarelli come migliore opera prima di critica letteraria, costituisce sicuramente il luogo ideale in cui cercare possibili risposte alle domande che ci siam fatti. Non che Giglio incaselli o trinci giudizi, come sopra ho paventato, anzi, rischiara, e di molto, le idee e senza assumere un tono oracolare. Le sue conversazioni - il concetto, la chiave, della conversazione - vengono ad essere un’intuizione di non poco momento per la critica letteraria: tanto la stesura di un dialogo all’interno di un testo letterario costringe l’autore a prendere ” in considerazione le diverse opinioni possibili”, procedendo “a sostituire dogmi e preghiere” (Borges), tanto la conversazione è “un sistema – che rifiuta ogni sistema – di leggere il mondo, di capirlo […]” (Sciascia). Credo che una siffatta impostazione rappresenti un inedito quanto encomiabile bagno di umiltà oltre che un metodo sempre auspicabile per la critica letteraria, un segnale di ritorno entusiastico alla lettura, lettura e riflessione e giudizio nei quali si è smesso una buona volta di spingere avanti i propri preconcetti, in una cornice di ritrovato rispetto per gli scrittori. Se sussistono queste condizioni allora si può negare che la letteratura sia un risultato esclusivo dell’autore, per affermare invece la Letteratura come intelligenza del critico con lo scrittore.

Per appagare quindi la curiosità su come si tiene insieme un discorso critico ambizioso locupletato delle voci di alcuni dei più ‘grandi’ scrittori della storia (Montaigne, Stendhal, Pirandello, Brancati, Savinio, Borges, Alvaro, Sciascia, Durrenmatt e altri ancora) non posso far altro che rimandare alla lettura delle loro conversazioni con Giuseppe Giglio:

letteraria

Giustizia /3

La giustizia umana e quella divina

di Giuseppe Giglio

(Recensione del romanzo Giustizia, di Friedrich Dürrematt - Marcos y Marcos, 2005, pubblicata sul n. 1/2006 diStilos“)

«Ancora una volta voglio sondare scrupolosamente le probabilità che forse restano alla giustizia». Sono tra le prime, sconcertanti, drammatiche note di una lunga «relazione» con cui si apre Giustizia. Felix Spät, giovane e squattrinato avvocato, scrive dell’assurda assoluzione di un assassino. In un noto ristorante della Zurigo degli anni Cinquanta, frequentato dai notabili della città, il consigliere cantonale Isaac Kohler, con un colpo di pistola, uccide a sangue freddo un famoso professore universitario. Lasciatosi docilmente arrestare e incarcerato, Kohler (che non ha mai svelato il movente del suo gesto) convoca Spät, da poco sganciatosi, da «galoppino o poco più», dallo studio di Stüssi-Leupin, l’avvocato più in vista della città, abilissimo intermediatore al servizio dei potentati economici. Dietro ghiotto compenso, Kohler, «perfettamente felice» in carcere, chiede al legale di riesaminare il caso, partendo dall’assurda ipotesi che non sia lui l’assassino. Spät – insospettito, ma costretto ad accettare dal bisogno – capirà poi di essere caduto vittima di un’infernale macchinazione, di essere divenuto, con le sue indagini, involontario istigatore di diversi omicidi, sullo sfondo di complicità e connivenze impensabili. In un Paese che «è uscito dalla storia quando è entrato nel grande giro industriale», il Potere ha ormai piegato la giustizia alle sue esigenze; e Kohler - «un uomo a cui piace giocare la parte di Dio su questo miserabile pianeta», da formidabile burattinaio all’interno di una guerra economica non meglio definibile (gestisce gli affari di Monika Steiermann, diabolica nana a capo di un enorme impero economico, tra le cui attività è anche il traffico di armi) - si diverte a manovrare gli esseri umani come palle da biliardo, persino dal carcere. Giocando à la bande, mandandole tutte in buca, intrecciando con stupefacente abilità la vischiosa ragnatela in cui sono implicati, consapevoli o no, compiacenti o no, i personaggi di questo eretico e magistrale giallo. Una storia complicata, surreale e grottesca, al limite del paradosso, ma filigranata da una scrittura elegante, raffinata, essenziale, allusiva, che cesella quadri di meccanica precisione e obiettività, e che sviluppa al massimo grado la dürrenmattiana tendenza centrifuga parodistica, autodistruttiva e demistificante: tra traffici di armi e prostitute, megere e intoccabili, sparizioni e omicidi, in un Paese che ha prodotto gli orologi di precisione e gli psicofarmaci, il segreto bancario e la neutralità perenne. Un congegno perfetto, che porge al lettore i dubbi di Dürrenmatt circa il rapporto tra la realtà criminale e la finzione “gialla”, ma soprattutto sul significato della giustizia umana e di quella divina, sulla relatività del concetto stesso di giustizia, sul senso del farsi giustizia da sé quando il crimine intuito non può essere dimostrabile, quando a Spät, dopo l’assoluzione di Kohler, per evitare che la giustizia diventi «una farsa totale», non resta altro che prepararsi per un «assassinio giusto». Ma dovrà arrendersi al caso beffardo. E sempre al caso Dürrenmatt affida l’inatteso epilogo: uno scrittore (cui era pervenuta la «relazione» di Spät) incontrerà, trent’anni dopo i fatti, Kohler, vecchissimo, e sua figlia Hélène, con cui avrà un lungo colloquio; è l’inizio di una discesa all’inferno, nelle profondità dell’animo umano, per scoprirne lacerti davvero sorprendenti, fino alle difficili, inquietanti domande finali: «Chi è colpevole? Chi dà l’incarico o chi lo accetta? Chi vieta o chi non osserva il divieto? Chi emana le leggi o chi le infrange? Chi concede la libertà o chi la ottiene?». Non è facile rispondere. Ma Dürrenmatt - dopo aver incastonato tanti tasselli nel mosaico di un personaggio-uomo multiforme e irregolare, di cui proprio il triangolo Spät-Hélène-Kohler offre un esempio mirabilmente efficace – ha provato a sollevare il velario su un’irredenta quotidianità: per mostrare, tra visioni apocalittiche, doloroso disincanto e sottile tormento morale, come gli uomini vivano ormai in un labirinto di specchi franti, dove i confini tra etica (ridotta a mero gioco dialettico) e opportunismo, dipendenza e libertà, sono molto sottili, in un mondo in cui persino il diavolo è stanco e in cui si può morire «di quella libertà che concediamo e che ci concediamo»; in un mondo che assomiglia sempre più a «una polveriera in cui non è vietato fumare».

Giuseppe Giglio

letteraria

Il ritorno di Cavina, scrittore pizzaiolo

Recensione di Giuseppe Giglio, apparsa sul Riformista del 18 aprile 2009

Gilbert Keith Chesterton diceva che bisognava fare il giro del mondo per ritrovare la propria casa. E in quest’affermazione c’è tutto il senso dell’avventura chestertoniana, l’avventura del man alive, dell’uomo vivo, protagonista di tante storie del narratore inglese. Ma a volte basta fare il giro della propria casa per avventurarsi tra i sentieri della vita. E aprire una finestra sul mondo, capire di più di sé stessi e degli altri, scoprire insomma una porzione di esistenza. Che è poi la ragion d’essere di un romanzo. È quel che accade ne I frutti dimenticati, l’ultimo libro di Cristiano Cavina (Marcos y Marcos, € 14,50). Un romanzo breve – o un racconto lungo – ambientato ai nostri giorni, in cui l’incontro di Cristiano (il trentenne protagonista, pizzaiolo e scrittore al tempo stesso, come Cavina; o meglio: narratore innamorato delle storie) con uno sconosciuto concide con la prima tappa di un inaspettato viaggio: tra un presente difficile e i sogni della memoria (sogni che volano come mongolfiere), tra le pareti della casa e le viuzze del piccolo borgo romagnolo in cui Cristiano – che è anche l’io narrante – è cresciuto. Ove « era tutto un coltivare frutti dimenticati», una vera e propria festa collettiva, ogni anno celebrata: giuggiole, pere volpine, sorbi, lazzeruoli, cornioli; tutti tirati su con amore.

Un viaggio affidato a una scrittura scarna e asciutta, in cui strettamente e sottilmente si intrecciano autobiografismo e invenzione: a disegnare per linee essenziali luoghi e personaggi reali e simbolici al tempo stesso, a dar voce a una libera e felice fantasia che sdipana e avvolge grappoli di vita vissuta o in divenire; tra amicizie e inquietudini, gioie ed errori, passione e avventure, tra le bancarelle dei frutti dimenticati e frutti della vita non raccolti, o mancati. Con la leggerezza, il candore e l’innocenza che della favola sono propri.

E a proposito di favola, di favoloso: questa storia si potrebbe leggere come un’immaginaria cartolina dalla Romagna, di calviniana memoria; dove il fiabesco e il realistico, perfettamente complementari, cesellano un personaggio-uomo che anche a noi somiglia: inquieto e come alla ricerca di un’antica armonia perduta, o non trovata. Un personaggio che dolorosamente ritrova un padre mai avuto (un uomo «molto stanco che con abiti troppo grandi si avvicina alla fine», quasi al capolinea) al quale decide di raccontare la propria vita disordinata, che sembra sfuggirgli di mano, proprio mentre la sua compagna – che non è più sicuro di amare – sta per dargli (a lui, Cristiano) un figlio: un bimbo con occhietti da canaglia, da «unno invasore», e con i «mignoli perfettamente uncinati». Proprio le stesse caratteristiche di Cristiano: che da bambino, come un intrepido palombaro (sprofondato in una vecchia tuta da lavoro del nonno, con sulla faccia una maschera da saldatore), guizzava con straordinaria agilità nella camera della nonna a caccia di mirabolanti tesori, come fosse in fondo all’oceano, sicuro della protezione dei papà che si era immaginato: D’Artagnan, Sandokan, Jean Valjean, il conte di Montecristo, persino Dio.

I frutti della vita, dunque; quelli cioè che alla vita stessa appartengono, che le conferiscono dignità e senso. Dapprima assaggiati quasi inconsapevolmente, poi insinuati nell’animo, quindi riscoperti da adulto; e vissuti come favola di sé: l’assenza, l’inquietudine, la malattia, il dolore, la morte, la gioia, la fantasia, le cose semplici, i bambini, l’amore. Soprattutto l’amore, la scoperta e riscoperta dell’amore. E il lettore si sente come convitato ad un gioco di intelligenza attiva, pagina dopo pagina. Guizza - anche lui palombaro - nelle profondità cui si spinge il protagonista, a seguirne la difficile rotta. Fino all’epilogo della storia. Quando si torna in superficie, dopo aver recuperato qualche tesoro. Quando la vita finisce e ricomincia. Quando si viene a capo di un agile filo di fantasia che corre lungo le nostre iinquietudini, balugina tra le intermittenze del cuore, si impenna in grappoli di gioia.

diario di un giullare timido

1988-1991

Grazie ad ALIAS del 6 dicembre scorso, uscito con una copertina su la Bibbia Gotica (Arcana, pp. 433, euro 19,50) di Nancy Kilpatrick, ho potuto rituffarmi nei miei sedici anni, età in cui esplorai i territori della new wave e la sottocultura dark. Decisi di essere della partita, un goth, di calcare quella scena lì e di diventare uno in nero. Ricordo che indossavo dei jeans elasticizzati neri, un po’ scaduti sul cavallo, visto che ero e sono tuttora un senza culo, nel senso che non ho chiappe. Non temevo il ridicolo e non mi fregava se mi ridevano dietro. Ancora oggi mi capita, anche sul lavoro, che mi domandino: “Nicola, e il culo? L’hai lasciato a casa?”. Ma tornando ai tempi, mi piace ripercorrere quel mondo di dark alle vongole. Ricordo anche che pensai di arrivare a spararmi della roba in vena per raggiungere un certo stato mentale e dell’anima, che forse mi mancava.

E se questo non successe qualcosa voleva pur dire. Vuol dire che alla fine della fiera era sempre meglio tornare la domenica a mangiare la lasagna della mamma. Il chiodo fisso della magrezza fino al sabato, ma la domenica è sempre domenica. Dovevo essere quello che la Kilaptrick definisce un poseur. Ci si fermava a qualche cannetta e neanche troppo spesso, ché a sedici anni con la paghetta settimanale di dieci mila lire dove potevi andare? Ci si imbucava nelle feste, ancora fatte in casa, a Modugno, Bitonto e Palo del Colle, dove si riusciva a forzarle a tal punto che un diciott’anni impostato sui trenini e pe-pe-pe-pe-pe-pe-pe-pe poteva anche svoltare non dico sui Christian Death o Siouxsie and the Banshees ma sui Cure e i Depeche Mode, beh questo sì. Il concerto dei Depeche Mode a Pasadena era senza dubbio il momento che prediligevo e chi mi procurava deliquio. Il look prevedeva scarpe con punta metallica abbacinante, maglie e camicie larghe abbottonate bene fin sotto il mento e portate rigorosamente fuori dai pantaloni ma poi ognuno personalizzava come più gli garbava, con spilloni e impermeabili tenebrosi. Le zazzere sguinciate portavano poi gli adulti che ci osservavano a una pericolosa criminalizzazione dei nostri barbieri. Voglio però tornare su un punto: la magrezza come dogma di fede. Ma l’avete visto oggi Robert Smith?

   

Gradite risposte di darkacci sopra i quaranta.

minimi sistemi

la dura legge del post

Quando la nostra discussione, partendo da Il delitto dei giusti, è approdata al tema della giustizia mi sono chiesto ed ho chiesto a Giuseppe Giglio se questo totem, la giustizia appunto, potesse avere corso, e se non proprio un presidio costante, che almeno si lasciasse recuperare talvolta nella nostra disperante attualità almeno come memento, cioè come coscienza che non solo nello spazio (ci dovrà pur essere un giudice a Berlino) ma anche nel tempo avrà pure da venire l’ora in cui un congegno teso a ristabilire equilibrio tra individui offesi e oppressi fino a perdere ogni vestigio di dignità ed altri individui oppressori, ai quali la vita sembra aver dischiuso ogni possibilità fino ad apparire, la loro vita, come una perenne, beneaugurante aurora; avrà pure da venire, dicevo, l’ora in cui questo congegno di giustizia possa trovare concreta applicazione.

Da ciò è nato, a mio parere, quel che dovrebbe essere un vero e proprio dibattito: Ripristino di giustizia? Quale giustizia?

Io credo che, se è vero che esiste la sofferenza umana, se è vero che esiste un mondo chiuso e “serrato nel dolore” (Carlo Levi), giustizia sarebbe allora prevedere un ordinamento sociale che sappia farsene carico ed un orientamento culturale, sotteso al primo, che conosca la partecipazione al dolore degli ultimi.

Tutto questo oggi non c’è, o viene a mancare quel poco che se ne era faticosamente costruito, per varie ragioni. Queste le hanno bene illustrate i media con Nanni Moretti che dice: “questo paese non ha più il senso della legalità”; Marco Travaglio che scrive per meglio acconciare, e con maggior humour, il pensiero di Di Pietro; i magistrati che sono costretti in prima linea, ritengo non per protagonismo ma per riempire un vuoto normativo spesso figlio di un vuoto politico se non proprio di un vuoto di pensiero di chi certi problemi non sa neanche da che parte cominciare a gestirli, e gli scivolano dalle mani, gli sfuggono la complessità, le sfumature, i nessi più elementari di causa ed effetto. E poi c’è l’individualismo di tutti noi, l’indifferenzismo dilagante, la deriva morale, la mancanza di rispetto, il si salvi chi può, il suv in doppia fila, il cuba libre e il mojito, la legittima rincorsa al paradiso in terra e la meschina illusione secondo la quale ciascuno di noi, pur vivendo in un villaggio di poche anime, se c’è qualcuno che prepara cuba libre e mojito e te li vende a quindici euro l’uno, pensa di essere felicemente intruppato anche lui in una capitale dell’edonismo.

Se oggi fustighi codesti costumi ti appioppano un moralismo rozzo e da destra e da sinistra. Da destra lo sappiamo. Ma da sinistra, dai comunisti duri e puri, quelli che io credevo uomini dalle mani pulite, sentir strologare di regole, costituzione e diritto come sovrastrutture, come emanazione o riflesso del cerbero imperialista … mah, c’è francamente da trasecolare. Una concezione che non riesce a misurare l’abisso che ci separa dalla piena applicazione, per esempio, della carta costituzionale. Un approccio secondo il quale viene prima di tutto il migliore dei mondi possibili e dopo tutto il resto, e fino a quel momento il rispetto delle regole può anche andare a farsi benedire così come a cacare ci può andare l’avversione nei confronti di chi ci calpesta e ci devasta, noi poveri fessi che ancora crediamo che la cultura propizi la civiltà e esorcizzi la violazione dei diritti. Allo stesso modo fu fatta l’Italia: con gli italiani ancora da fare. E se gli italiani nel frattempo si sono fatti, che spettacolo, signori, questi italiani!

diario di un giullare timido, letteraria

La Repubblica porta ritardo

Scusate ma non riesco a tenerlo dentro:

ho scritto un libro (Racconti a vita bassa) cercando di illustrare un mondo di esistenze sbagliate, vite piene di scompensi morali e fisici, bambini di otto anni già molto smaliziati ma vittime di crescite anomale il cui futuro è un approdo di perversione; predestinazione alla criminalità; un collegio monastico con tutta la violenza fisica delle suore che porto ancora dentro di me; bambini dispersi, ritrovati e di nuovo abbandonati; una dedica a tutte quelle persone che vivono nella totale perdizione e che non intravedono il giorno in cui riusciranno a ritrovarsi; la desertificazione del suolo e l’inaridimento dei rapporti umani; vite vissute per delega, secondo il condizionamento se non la prescrizione di qualcun altro, vuoti interiori incolmabili, arsura morale da parte degli adulti e, per converso, infanzia violata anche da matta bestialità; e nessuna bellezza a far da paciere col mondo.

Le storie intrecciate di Dàniel e Michelino bambini, Gerardina la genitrice possibile e falsa, della quale mi affascinava il percorso che porta una donna, che si sente benefattrice perché fa la carità e raccoglie i bambini per strada, a non sentire più nulla, come per una sorta di legge del contrappasso, finisce per non sentire più nulla sia fisicamente che metaforicamente. L’ho punita in questo modo perché è una persona che ha costruito tutto sulla falsità, sull’ipocrisia, come ce n’è nella nostra provincia: bigottone che fanno finta di occuparsi degli altri ma, quando qualcosa le tocca da vicino, eccole manifestare il loro spietato egoismo.

L’adolescente Olga, ben lontana dalla maturità perché costretta a subire la violenza dell’universo che la circonda: un ragazza in conflitto con tutto e tutti e che colleziona una serie di scelte sbagliate. Olga, diversamente dagli altri personaggi, possiede una famiglia ma evidentemente non le serve.

Tutto un mondo in cui la famiglia non esiste ma di cui, paradossalmente, se ne sente la mancanza, e tuttavia non si tratta tanto di nostalgia della famiglia intesa in senso tradizionale quanto di una rete degli affetti, di legami profondi e reali.

Infine, Riccardo. Spaventevole quanto naturale evoluzione dei personaggi da me creati.

Insomma, tutta una geografia umana ignorata, come nota Giuseppe Giglio, una commedia di demenza e dolore.

Poi un bel giorno arriva R2 (La Repubblica del 20 ottobre 2008) e titola I BAMBINI PERDUTI DI PUGLIA .

Tenere ben presente che si tratta dell’inchiesta di prima pagina della sezione R2 de La Repubblica.

Il giornalista scrive: Abusati, violentati, picchiati. Sono 50.000 i minori abbandonati in Italia, la maggior parte nel Sud. Così, mentre l’adozione è un terno al lotto, le comunità si riempiono di bimbi. Condannati alla solitudine […]
un esercito di ombre condannate ad un limbo: quasi nessuno torna a casa […]
nuovi orfani, figli di genitori falliti… non esiste un elenco di adulti pronti ad accoglierli.

Dopodiché passa in rassegna l’opinionismo di alcune belle teste d’uovo. Nell’ordine, Nostra Famiglia: “parliamo di devianza giovanile e non ci accorgiamo che a esondare è la devianza degli adulti”; il sociologo Giuseppe Moro: “Bruciamo una generazione confondendo l’autodistruzione con la normalità”; il sociologo Saverio Abruzzese: “La precarietà devasta genitori immaturi e la famiglia allargata si disintegra”; Famiglia Dovuta: “è una società tacitamente costruita per l’abbandono… qualche domanda è lecita sugli interessi che si muovono attorno all’agonia delle nostre relazioni; la priorità non è nemmeno più aiutare i figli traditi dall’egoismo, ma salvare gli adulti dal nulla che li uccide; la patente per i genitori”.

Mi si perdoni la presunzione:

MA IO CHE AVEVO DETTO?!

letteraria

il delitto dei giusti

Una fiaba tragica di Giuseppe Giglio

 [questa recensione è stata pubblicata su Pagine dal Sud (aprile/giugno 2008), rivista trimestrale di politica, cultura e letteratura edita a Ragusa a cura del Centro Studi Feliciano Rossitto]

 

In una splendida valle, un paradiso incastonato tra le montagne del Sud-Est della Francia, un vecchio contadino sdipana i fili della memoria. E racconta della vita di un piccolo borgo di quella vallata, nella regione del Maubert, in cui la stirpe degli Arnal – che da diverse generazioni instancabilmente lavora nei boschi, nei pascoli e nelle piantagioni - detiene un’indiscussa reggenza morale. Un dominio sugli uomini che da sempre pare nutrito dell’esercizio di virtù legate alle quotidiane necessità, senza eroismi e magnificenze, fin quasi a conferire il prestigio del soprannaturale alla reputazione degli Arnal (una famiglia in cui «matrimoni tra cugini riportavano in seno al gruppo chi se n’era temporaneamente allontanato»), a comporre un’epopea familiare dell’onestà e della giustizia. Il vecchio Arnal è l’imponente patriarca: membro di spicco del consiglio comunale per oltre quarant’anni, Consigliere – così lo chiamano i valligiani - conta più del sindaco e del parroco. Tutti si rivolgono a lui per un consiglio, e in tanti ogni domenica febbrilmente lo attendono, depositario di verità, infallibile oracolo.

In quell’oasi di serenità, cui una natura di prepotente bellezza fa da fascinoso controcanto, Maurice e Clémence Arnal, fratello e sorella, condividono ogni gioco, ogni scoperta. E i primi brividi di una sensualità prepotente. Bella, sorda e selvatica, affascinata dai prati, dagli alveari e dai boschi, Clémence se ne sta «sdraiata sull’erba vecchia raspata dalla neve, la pancia sulla terra riscaldata, la testa nelle braccia piegate, le cosce stese e i polpacci che battevano l’aria con moto alterno». Fino a quando indecifrabili vertigini d’infanzia improvvisamente esplodono, e rendono il corpo di Clémence - «fin troppo consapevole di essere isolato dai rumori del mondo» - «sensibile a tutti i fremiti della vita», fino alle estreme conseguenze. Ma quell’amore proibito scatena una tremenda reazione della famiglia, che giunge a compiere un gesto orribile, una meschina congiura della vita contro la vita: il delitto dei giusti.

Reca questo titolo uno dei più significativi libri di André Chamson (1900-1983)), edito per la prima volta nel 1928 (titolo originale: Le crime des justes), uscito in Italia nel 1947 nella Medusa, la prestigiosa collana mondadoriana, e ora  finalmente riproposto da Marcos y Marcos, a rendere il giusto omaggio ad un intellettuale - amico di Gide, Malraux e Valéry, tra i maggiori narratori del Novecento francese - quasi dimenticato nel nostro Paese. La voce  narrante, alter ego dello scrittore, sembra riscoprire un vecchio capriccio di Gesualdo Bufalino: «Raccontare un ricordo lo fa diventare una fiaba», con felice riferimento al potere ludico della memoria, che guida lo scrittore all’artificio dell’invenzione. Ma se Il delitto dei giusti  ha della fiaba l’agilità e la leggerezza, nel libro dominano i toni dell’apologo. E un amore incestuoso appena accennato – uno schizzo vergato con rapide ma pregnanti pennellate (non la morbosa e affascinante  profondità dell’amore tra il raffinato “dilettante” Ulrich e sua sorella Agate, per esempio, ne L’uomo senza qualità di Musil; e neanche l’incesto, tutto giocato sull’ambiguità, del landolfiano Un amore del nostro tempo) - diviene agile manovella per sollevare un pesante velario sulle debolezze, le ipocrisie e i perbenismi di una piccola comunità dell’inizio del secolo scorso, ma che molto somiglia a tanta odierna società, sempre più povera della moneta più preziosa: quella del vivere.

Nessun delitto può appartenere ad un uomo giusto; e neanche ad un uomo eccezionale. E invece Consigliere – per difendere una reputazione su cui il narratore lascia intanto intravedere nere ombre, per coprire uno scandalo che li avrebbe travolti – pare avocare a sé e alla famiglia una sorta di «diritto al delitto», come il dostoevskijano Raskol’nikov. Ma Consigliere non ha affatto la statura di quell’enorme personaggio, e neanche la tragica irresoluzione di Lafcadio, il gidiano eroe dell’atto gratuito. È soltanto un uomo schiavo della propria mania di grandezza, con cui il tempo (il destino? il fato?) si diverte a giocare, quasi a conferire vivida sostanza ad un aforisma di Eraclito l’Oscuro: «Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo». E il finale del racconto sembra andare proprio in questa direzione.

«Un libro sta tutto in come finisce. La fine deve essere spaventosa. E ci deve essere un re», disse una volta un oracolante contadino (che non sapeva leggere) a Leonardo Sciascia. E lo scrittore subito notò che quel vecchio agricoltore stava reinventando la tragedia greca, «quella che i suoi pari di più che duemila anni addietro chiedevano ad Eschilo e Sofocle, che ascoltavano negli anfiteatri tra gli ulivi, di fronte al mare». La fine de Il delitto dei giusti è spaventosa. E c’è anche il re: nudo, ma sempre ammantato della sua orribile regalità. Al lettore la catarsi.

 

Giuseppe Giglio