letteraria

L’Apocalisse di Pecoraro viene al principio

Lo straordinario, ribollente “zuppone vitale” di uno dei migliori romanzi del XXI secolo

Ripercorrere all’inverso anche il più esile rivolo causale, destrutturare la catena degli eventi, riducendoli ciascuno alle proprie unità costitutive (…) per individuare il punto esatto del non ritorno.

Dopo la catastrofe primigenia, dopo l’essere venuti al mondo, c’è il panico per qualcosa che nel venire al mondo ci ha invaso e che dispiegherà tutta la sua capacità patogena per corromperci e degradarci irrimediabilmente, per farci morire infine come morì Erode, “roso dai vermi”. E la vita è solo una campata di ponte verso la fine. Una toccante fine lunghissima che dura cinquecento pagine belle intense, fitte, turgide, pastose, barzotte, novecentesche, pop, insofferenti, cinico/comiche e altoromanzate.

(…) E questa è una dannazione, non c’è un appiglio, un chiodo piantato da qualche parte che funga da riferimento assoluto, da inizio del ragionamento (…)

La vita in tempo di Pace (Ponte Alle Grazie) di Francesco Pecoraro ha come pretesto la parabola di un tizio che, sedotto da “l’inaudita volontà di superamento insita nel ponte”, sogna col suo mestiere di arrivare a fare ponti ma al massimo diventerà un organizzatore di cantieri. Insomma, non riuscirà mai a realizzare il desiderio di diventare un pontifex. Al fondo, però, il libro è narrazione di tutto quel che residua dall’apocalisse iniziale, seminale e fondante come un Big Bang; il resoconto di un movimento trascinato, come di caduta evitata in caduta evitata, incardinato su di un prolungato, incessante, disperato sforzo ordinatore (tecnico e filosofico) dentro al caos del consorzio umano. Countinua a leggere »

letteraria, minimi sistemi

Ovunque in tempo di pace

Ovunque l’eterna propensione all’alleanza consortile e provvisoria, per obiettivi temporanei e personali.

Francesco Pecoraro

letteraria

Parlo a vanvera dunque scrivo

Qua succede che si è talmente capovolta la faccenda che non tiene più neanche l’alibi dei temi complessi che devono passare necessariamente per figurazioni semplici e di facile lettura. Perseguendo ossessa il mito dell’immediata comprensione, l’odierna narrativa italiana, e tutto il sistema che la regge, corre il pericolo di degradarsi a pura innografia e quindi, fatalmente, a canto liturgico che necessita appena di un officiante, due chierichetti e magari un coretto tuseilamiavitaaltroiononho. Invece la struttura agile ce la si deve meritare, come Nietzsche si meritò la pazzia, sennò come fai a criticare la cazzata del “serve un PD più sexy“? Che altro doveva essere questo partito se non appunto una struttura agile? E non è diventato un pasticcino avvelenato questa storia delle categorie sexy spalmate su ogni forma di espressione dell’uomo di cittadinanza italiana a mascherare la mediocrità, la desolazione? A furia di sensualizzare il nulla poi non ci si dovrebbe sorprendere più di tanto se a quel ragazzo che ti faceva così sesso poi non gli si arma la verga. E tu, che eri convinto di sentire addosso a lei il profumo della fica? Te ne tiri uno a mano visto che l’hai trovata seccata come neanche dopo prolungata esposizione a vento di favonio. Perché se non sei Céline non puoi sciacquarti la bocca con la scrittura che riproduce il parlato quotidiano. E dei tanti nuovi Céline se ne son salutate di nascite ma poi ci si è dimenticati di pubblicarne il certificato di morte.

altri spot, diario di un giullare timido, le torsioni dell'anaconda, letteraria

I miei degenerati

Sono scrittore non perché commerci col potere ma proprio perché non intrattengo ancillarità alcuna col potere. Sono scrittore di e in una cultura “altra” rispetto a quella della classe dominante, niente affatto interessato alla facile parlabilità cui quella è pervenuta, estraneo pure anche all’ottimismo da “magnifiche sorti e comunicative” di quella. Sono scrittore, bravo o meno non importa, per predestinazione e quindi per necessità. Sono scrittore proprio perché mi va di ricorrere al dialetto epperò senza ruffianerie, cioè senza glossari, quindi per totale fiducia nel suo potenziale espressivo. Sono scrittore perché vivo attraverso i miei degenerati, i figli di famiglie infelici di RAVB, raccontati nel passaggio dalla loro dimensione chiusa e arcaica all’aria aperta della società che li detesta, e perciò stesso divorati dalle nevrosi, e in tale passaggio resi all’istante dei disadattati senza speranza che come uomini si adempieranno soltanto nella perversione. Sono senza speranza loro perché sono scrittore pessimista io. Pessimista in quanto come scrittore non faccio altro che farmi incrinare, deliberatamente, le mie certezze strutturalistiche. E ogni volta mi rifaccio una verginità strutturalista e ogni volta me la spappolo. Poi, i miei “poveri”: non li seguo con umanitarismo peloso, il modo più facile per abrogarli del tutto; piuttosto me li faccio e da loro mi faccio fare, in senso genitale e quindi creativo. Sono scrittore perché trovo che la più bella novità dell’anno nel panorama del “raccontare” sia quel Sergio Citti filmato da Martone mentre commenta il suo filmato girato una decina di giorni dopo la morte di Pasolini, all’idroscalo di Ostia. La forza di quel racconto è proprio la forma, un loop doloroso, lo stile iterativo e ossessionato, e, letterariamente, la lingua di Sergio Citti, lamentosa, manicomiale, con dentro tutta la nostalgia di sapersi irrecuperabile a ogni ottimismo, ad ogni perfezione. “Ecco qui la maaghina […] erano due le maaghine …”

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Suite in re minore per clavicembalo

Ho attraversato ridendo le sue memorie, cara Rosa. Ho attraversato, ridendo, il suo dolore. E poi si finisce piangendo perché solo nelle ultime pagine il suo sguardo matura la ‘cognizione del dolore’, e rende umano e comprensibile un uomo che se non fosse stato esilarante sarebbe stato niente altro che mostruoso, cagione prima dello stato di ‘orfanitudine’ della figlia a genitori ancora vivi – da non sottovalutare in ciò anche il ruolo svolto dalla gelida madre. Strabilianti poi le avventure del e col barone di Canicattì, sacerdos esperto in esorcismi fecali.

Strabiliante la Sua penna, che le guadagna (opinione tutta mia, chiaramente) un primato che dovrebbe frustrare in eterno la plebaglia che traffica e sgomita nella repubblica delle lettere. Ah, quella lingua colta che “arremba” la pagina e, aggiungo io,  arringa la storia, cioè le dà forma (suprema) e sostanza (la cucina del cachot praticamente un mondo fatto e finito, e la vitalità negli uomini squillante fino al parossismo) … Del libro oserei dire: il sapere enciclopedico in forma (e sostanza) di romanzo. La scrittura tripudiante che celebrando la resistenza nelle condizioni più impensabili celebra la vita, la Sua vita e quella del padre, dei cani sparati, della scimmia venuta da Agadir e di tutti gli INDIMENTICABILI protagonisti di questo immenso “avantindrè” di saga familiare, sgargiante buddenbrook scoppiettante.

Lei, donna Rosa, ci fa dono di una storia con cui il lettore, io sicuramente, fa grandi gozzoviglie. Non avrei altri modi per definire la mia partecipazione. Si gozzoviglia per 286 sfolgoranti pagine. Si conosce il suo inferno, è vero, ma ci si ambienta molto bene (sarà  l’ironia o proprio le gran risate scaturite). Le frattaglie di una cucina in disarmo, di una bestia, o di un uomo morto, il Padre le usava per divinare il futuro, Lei invece le ha sistemate e animate in un tableau vivant indelebile. Chiuso il libro ci sono due cose che si ha voglia di fare: 1) è stato detto, leggerlo ancora; 2) attaccarsi di più ai nostri affetti.

È un libro che invoca amore per sé, per l’autrice, e non dirò mai: per l’umanità, ma per le persone che abbiamo più vicino, per le persone che abbiamo, questo sì.

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Laboratorio di scrittore

A prendere vita in queste pagine di Fattacci (di Vicenzo Cerami) sono i lugubri conducenti di una vettura vocata allo schianto. Ex pugili, canari, nani, plebei, marchesi e bon vivants che covano “una sperimentata vocazione al disfacimento”. Entrare per caso nel loro raggio d’azione è una sciagura terribile, significa varcare i cancelli di una depravazione che, consumate tutte le sue estreme esperienze, non ha niente altro da offrire, al finale, se non tragedia. Vite intrecciate da legami tanto fragili quanto totalizzanti per la loro natura morbosa quando non sadomasochistica. I soggetti terzi che intervengono a rompere questi delicati equilibri, questi ordini ipocriti e degeneri, altro non fanno che imboccare, senza saperlo, una via buia alla fine della quale vi è invariabilmente morte.

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altri spot, letteraria

Ma non sono un critico letterario, eh …

Sono pagine di storie curiose e di risate, di polle, crete e contrafforti; rocciose o boscose come l’universo che racconta. Fresche nonostante l’acqua calda termale attorno a cui tutto ruota. Libro scavallante tra le groppe della vita come la gambe nude scavallanti dal predellino di una Bentley per porgere all’onor del mondo una stratosferica bellezza russa.

Scritto a flusso, si legge a tonfo. Lingua bombardante come una contraerea quando la narrazione si fa guerrigliera, liricamente commossa quando vuole restituire la solitudine di un cipresso.

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Quasi una vita

La pianura pugliese. Olivi, seminati, e nessuna apparenza di uomini o di animali. Alberi sostenuti da muriccioli di pietra. È il paese dell’architettura. Anche prima di vedere una città, le capanne rustiche dei campi evocano la forma delle chiese e dei castelli. Ondulamenti come il mare, e strisce di colori come sul mare. Il più piccolo rialzo di terreno è una sorpresa. Ha piovuto la notte, e la pianura è tutta rugosa di rigagnoli come un vecchio viso. È qualche cosa come il fondo del mare, terra nella sua più vera struttura, un grande magazzino vivente di alberi da frutto e di viti. Le viti sono a ceppaia come nel Bordolese o nello Champagne. Nella pianura, soltanto i colori creavano parvenze e illusioni di paesaggio. L’azzurro del mare, le onde rabbuffate lontano, rilevavano il giallo delle spiagge. I fichi col loro pollone ma le foglie ancora non nate. In treno, ancora addormentato, distinguevo il sud, il mio paese, percependo il suo silenzio, quel silenzio tutto suo, remoto, sterminato. E dal finestrino ritrovavo aspetti del mio paesaggio infantile, immutato, e come se mi rimproverasse e non volesse più sapere di me.

Corrado Alvaro