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Mio padre era veloce

Il malo vento soffia tre volte per le contrade, campestri e urbane, già duramente battute - nel senso proprio dell’essere lavorate a caldo - dalla canicola. Tre onde d’urto terrificanti scuotono abitazioni a svariati chilometri di distanza. Si alza un torcione di fuoco fumo e cenere che in pochi istanti è già un ciclope grigionero che ogni cosa sovrasta e tutti gli uomini atterrisce.

Se non esistesse nella memoria modugnese il 1959, uno penserebbe: “Ecco l’ISIS, prima o poi anche in Italia doveva arrivare. Un attentato proprio a Modugno”.

Invece è il 1959 che ti ancora alla realtà e ti inchioda all’identità. Già perché la Modugno disgregata, sfilacciata, dispersa, con cui spesso in molti si sono trovati a fare affannosi conti, si accende all’improvviso, per ritrovare se stessa e una specie di tragica unità, nel trauma che salda il 2015 al 1959. Un trauma che ti costringe un minimo a ricordare da dove vieni, quali eventi hanno segnato la tua storia, quanta roba in mezzo a queste due date non è servita, e non serve. Quante illusioni e vanaglorie, tese come corde inutilmente coriacee tra due anni zero, ci hanno nel frattempo lesionato nel profondo.

Tanti modugnesi raccontano del 1959. Quando mio padre era veloce.

Con la calura che da un mese a questa parte incrudelisce, perseguita e sfinisce, rimpiccioliscono a vista d’occhio gli indumenti sulla pelle degli uomini. Per ogni giorno in più da passare in questa fornace c’è per strada un uomo in meno che sopporta i pantaloni, una donna in meno il vestitino. Così, calzoni e camicie lasciano spazio a pantaloncini e canotte, le scarpe ai sandali e alle infradito, i calzini al piede nudo e basta. A vederli così, sempre più svestiti, con la poca stoffa rimasta addosso quasi solo per coprire le parti vergognose, questi uomini e queste donne, e i ragazzini già a torso nudo, potrebbero sembrare gli stessi del 1959, nulla di moderno, sempre gli stessi stracci addosso. Perché un’estate feroce, che si svolge in costanza di caldo africano, può piallare le epoche, azzerare il tempo, offrire squarci visivi eternamente uguali. Arcaici. Ancestrale, è questo il termine scomodato e variamente adattato, con cui si scapricciano i media, per la specifica bisogna e per quando vogliono commentare cose oscuramente e tragicamente legate al meridione d’Italia. Meno poetico ma forse più calzante, e anzi più impietosamente esatto, lo Svimez che in questi stessi giorni, col suo rapporto, restituisce un Sud “a rischio di sottosviluppo permanente”.

La collinetta, un’ondulazione lievissima, è la stessa del 1959, quella che sorge su una sponda della lama piccola, in contrada Balsignano. Poco più giù un casale fortificato resiste sin dall’alto medioevo ed è intanto diventato pregevolissimo sito di interesse culturale. Ma sai che per trovare distruzione e morte, oggi come nel 1959, devi percorrere il curvone tracciato nella depressione del terreno, risalire per altri centocinquanta metri e, prima di arrivare al casale, buttarti in mezzo agli ulivi , là dove se ne sta infrattata la stessa fabbrica dei botti che saltò in aria cinquantasei anni fa, stesso disastro, stesso nome in ditta, insomma, ahiloro, ahinoi, stessa famiglia. Più una manciata di operai spazzati via mentre lavoravano per incendiare di fragorose cattedrali di luce i cieli notturni nelle feste di paese.

Così gli “arcaici” si riversano in strada e imboccano la provinciale Modugno-Bitritto immersa nella campagna ribollente. Lo fanno a piedi, di corsa, in bicicletta, sui motorini, in direzione polveriera ‘Bruscella’, incontro ad altri scoppi che, benché minori, alimentano il terrore che non tutto abbia finito di esplodere e, quindi, chissà cos’altro può accadere, quale apocalisse può ancora venire giù.

Dopo il boato, il martellare compatto delle cicale lacerato dai suoni delle sirene dei primi mezzi di soccorso. Ogni tre minuti ne sfreccia uno.

Sbucando dal curvone sei investito da ventate di zolfo e volteggi di cenere. Sei entrato nel nocciolo rovente di un luglio interminabile. Parte ancora qualche razzo che rilascia fontane di colore in mezzo alla nube di fumo. Sei nel cortocircuito di sessant’anni di storia, nel big bang di questo paese, nel nucleo fondante di un orizzonte mitico e luttuoso.

[Quel ragazzino era sempre di corsa, sempre a far mulinare i garretti, per cose che neanche presentavano un motivo per farle così di corsa. Non camminava mai, correva solo. E quella velocità prometteva bene. Già trottava per chissà cosa nella strada polverosa quando arrivò la tremenda rombata che lo dirottò all'istante in direzione della polveriera. Correndo veloce veloce nei suoi braghini, fu tra i primi ad arrivare.

Quel che videro i suoi occhi di pischelletto, corpi carbonizzati tirati via dalle macerie, me lo ha raccontato dopo, quando sono arrivato io ad essere pischelletto e insieme s'andava a correre nelle strade di campagna passando proprio davanti alla fabbrica dei fuochi.

Alcuni suoi amici ricordano ancora oggi di quanto corresse veloce. Uno dei ragazzetti più veloci di Modugno. C'è chi dice di non averlo mai visto camminare, solo correre. E prometteva pure bene.

Ecco, tanti modugnesi raccontano dell'esplosione del 1959 . Mio padre era tra quelli.]

Alla triste conta fanno dieci morti oggi, sette quella volta.

Le notizie:

  • Il 24 luglio 2015, intorno alle 12.30, esplode nella campagna modugnese la fabbrica di fuochi pirotecnici ‘Bruscella Fireworks’, causando la morte di dieci persone. L’azienda, fondata nel 1890, fu completamente distrutta in un disastro analogo nel 1959. Ricostruita, ha illustrato la città di Modugno, crescendo nel tempo fino a divenire, nel settore, un’eccellenza riconosciuta all’estero e pluripremiata in Italia.
  • Mio padre, Sacco Emanuele, è scomparso lo scorso 8 aprile in circostanze tragiche. Prima che ad altri, ancora non saprei dire a me stesso come sia morto mio padre. Fu campione di corsa campestre e operaio OM. Mondi di cui quasi non resta più traccia.

letteraria

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le torsioni dell'anaconda

restare fermi passin passetto

Il bisogno di seppellire i morti e la necessità ineludibile di dar corso a ai connessi rituali di lavaggio, ricomposizione e vestizione della salma, nonché la scrupolosa tradizione di manutenzione del sepolcro, sono in relazione di totale identificazione con la medesima ineludibile necessità che si prova di coprire il buco osceno, fetido, corruttore e mistificatore della morte. La morte deve essere ricoperta di fulgidi panneggi, preziosi tessuti, risplendenti abiti (i migliori che siano appartenuti al defunto). Perché questa è la Pietà. Mai ebbi e constatare che pietà l’è morta. Sbalorditiva impostura. Mai nella mia vita, mai nella comunità in cui vivo. Tutto ci parla della meravigliosa vicenda dell’uomo su questa terra, del compimento di umanità cui è chiamato (Hereafter, Departures, Michele Misseri, Un tram che si chiama desiderio, vitemarie e punticorradi in anaconda, Suttree pagg.. 178-182, gli zombies di Romero, i fortunato loperfido e sigismondo criscuolo), del nostro obiettivo di civiltà ormai già ben più che traguardato nella notte dei tempi (Antigone e i giudaico-cristiani imperativi ormai mitici). Cosa che equivale a dire che, meravigliose rappresentazioni di Clint Eastwood Yojiro Takita e Nicola Sacco a parte, è dalla notte dei tempi che non c’è progresso di civiltà, non è dato esserci. Non è dato Esserci.

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come ti resisto io, come non ti liberi tu

riprendo dalla rivista Sud Critica questo mio articolo ispirato dallo sconcio travestimento a cui si è potuto assistere qualche giorno fa: l’Invasore che sale in cattedra mascherato da liberatore

25 APRILE E 1° MAGGIO A MODUGNO. I PADRONI RESISTENTI

di Nicola Sacco

Raggelante celebrazione del 25 Aprile a Modugno. Un corteo sfila per le strade cittadine come un idra a tre teste: ogni testa in cosiddetta rappresentanza delle istituzioni locali. Il sindaco Domenico Gatti, il consigliere provinciale Giuseppe Rana, il consigliere regionale L’Innominato.

In verità essi sfilavano secondo ben diversi criteri di rappresentanza. Proviamo a incolonnarli in ordine di importanza, illuminando al contempo ciò di cui essi sarebbero realmente rappresentativi:

1) L’Innominato: a quanto pare consigliere regionale udc, ma più sicuramente re del mattone a Modugno, cementificatore forsennato, elegantone a vanvera, fautore di un ritorno al vassallaggio diffuso, padrone qui di un partito di sedicente ispirazione democratico-cristiana allo stesso modo in cui può esserlo, padrone, il fondatore di un celebre partito-azienda, ma soprattutto signore assoluto di un paese bruttato da incessanti aberrazioni urbanistiche portate a suon dei suoi stessi progetti, dei suoi stessi cantieri, dei suoi stessi palazzi;

2) Giuseppe Rana: a quanto pare consigliere provinciale, sempre udc, sindaco per due mandati, dunque per dieci anni, gli stessi in cui ha lasciato che la città di Modugno fosse continuamente bruttata (magari dall’Innominato), fino ritrovarsi un centro storico ridotto ad immondezzaio, un paesone come un’unica concrezione di cemento che impazzisce in mille direzioni, e una qualità dell’aria che già come espressione grida vendetta – a Modugno la parola qualità non può in alcun modo accompagnarsi all’aria – , quindi diremo più opportunamente: un’aria pestilenziale, per la quantità di veleni in essa presenti che, studi epidemiologici  ed esperienza diretta alla mano, reca malattia e morte in troppe famiglie del comune. Si deve pure ricordare come durante il decennio Rana il segno del deterioramento spaventoso della qualità della vita sia dato anche da un radicale smarrimento del senso civico negli abitanti modugnesi (complice l’assenza di politiche culturali degne di queste nome) fino a un degrado e a un disagio e a un’angoscia vissuti praticamente ad ogni livello dell’esperienza civica;

3) Domenico Gatti: a quanto pare primo cittadino, sì, insomma, sindaco contro ogni evidenza, degno epigono di Giuseppe Rana, sebbene sia rimasto indelebile nella memoria di molti cittadini, crediamo per il carico di mistero e impenetrabilità che ancora porta con sé, l’arcano messaggio della discontinuità nella continuità, di cui si fece portatore  agli esordi della campagna elettorale del 2011. Alcuni detrattori col sangue agli occhi sostengono trattarsi semplicemente di carico di impenetrabile ipocrisia. Pare, infatti, che durante l’evo Rana, egli fosse uno, il primo, dei suoi assessori all’urbanistica – cosa che lo renderebbe dunque indubbiamente complice nella devastazione di un paese nonché concubino e di Rana e dell’Innominato – e pare, inoltre, che, sempre nello stesso periodo storico, da segretario del principale partito di maggioranza, quello democratico, abbia contribuito, da concubino appunto, a mantenere saldamente in sella il sindaco Rana, il quale, ad onta del perduto amor del Gatti, gli avrebbe anche fatto prima un incantesimo e poi pure una linguaccia nel mentre che passava a sistemarsi tra le fila dell’udc. Grazie a tale incantesimo, infatti, Rana avrebbe potuto insolentire a piacimento il partito democratico senza che questi arrivasse mai non solo a concepire sfiducia nei suoi confronti, ma nemmeno mai una forma di larvato scoramento, di timido distacco, di modesta incomprensione. Insomma, sotto la guida Gatti, si è riusciti nell’impresa di forgiare un partito totalmente esente da sussulti di dignità. Oggi, però, l’aspetto di più problematica decrittazione dell’amministrazione Gatti è questo: cosa aspetta ancora il sindaco a nominare un assessore alla cultura? Come mai quella carica è ancora vacante. Chi non siede su quella poltrona? Qual è il suo disegno? Cosa si nasconde dietro questa non-scelta?

Ora, si dà il caso che via sia un’indagine, condotta e ormai conclusa dalla magistratura barese, su una presunta associazione a delinquere: il sindaco Domenico Gatti sarebbe uno della cricca, l’ex-sindaco Giuseppe Rana sarebbe uno della cricca – altri consiglieri comunali di destra, centro e sinistra sarebbero coinvolti nella medesima cricca -,  … e poi ci sarebbe una sorta di convitato di pietra in questa cricca, un dominus, appunto un Innominato, o forse solo un Non Ancora Nominabile. Oltre che sconfortare, annoia, anche, il dover segnalare come si tratti sempre degli stessi intramontabili prepotenti di Modugno, quantunque si travestano da nuovi o trascorrano dal pd all’udc e viceversa: quelli che cambiano i regolamenti comunali nottetempo, in pieno agosto, mentre tutti dormono o stanno al mare (per favorire gli amici diversamente concubini con nomine intuitu personae ad incarichi tanto inutili quanto strapagati), gli stessi che violano il buonsenso e il buongusto urbanistico prima ancora delle stesse norme urbanistiche, gli stessi che consumano brogli elettorali tramite magheggi tipo inadempienze formali finalizzate all’alterazione della composizione dei consigli comunali, gli stessi cioè, che procedono speditamente con le più innovative tecniche di eliminazione dell’avversario politico , da sinceri e determinati nemici della democrazia.

Questi sinceri e determinati avversari della democrazia, sfilano, dunque, da “liberatori” nel giorno del 25 aprile, in testa ad un estenuato corteuccio. Ancora una volta consumando questo rituale indecoroso delle istituzioni che onorano “il giorno della …”, ovvero della qualunque cosa, senza che nessuno si mostri sensibile a cogliere il grande inganno ravvisabile nel fatto che, nel caso in questione, chi officiava il rito della “Festa della Liberazione”, premeditatamente soprassedendo sulla Liberazione come evento culminante di una civiltà della resistenza madre successivamente di una civiltà costituzionale, ebbene, È, proprio egli officiante, in realtà, l’abusivo della democrazia, o meglio “l’Occupante”.

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SudCritica: “cronache modugnesi”

Una mia partecipazione a Cronache dall’Interno, videorubrica di SudCritica

http://www.sudcritica.it/index.php?option=com_content&view=article&id=400:cronache-modugnesi-video&catid=40:cronache-dallinterno&Itemid=59

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COSE DI MODUGNO. LA SCOPERTA

a proposito dei predicozzi del potere locale, su Sud Critica un articolo molto interessante

http://www.sudcritica.it/index.php?option=com_content&view=article&id=376%3Aa-modugno-si-dimettono-pure-da-sel&catid=1%3Asudcritica-modugno&Itemid=2

diario di un giullare timido

e non mi squaglio

Io che pure transitai dal modo à tiroir di RAVB alla vagotecnica dell’entrelacement della “via gràl o il parto dell’anaconda” già OK PER IL CASSETTONE, mia ultima, molto inedita e non meno versipelle (direbbe il principe De Curtis) fatica letteraria.

le torsioni dell'anaconda

nicola sacco e l’analfabetismo di stato

presuntuosamente affermo che fintantoché diverse decine di migliaia di italiani non avranno letto “il parto dell’anaconda” mancherà loro una conoscenza fondamentale per comprendere buona parte della “vicenda umana”.

letteraria

Ingannamorte

Se l’era andata a cercare lo stronzone.

Ninì e l’autobus definivano insieme un grumo di dolore a quattro ruote che viaggiava su e giù, avanti e indietro, per strade provinciali.

Voleva solo parlare a qualcuno di suo fratello.

Quella volta una signora ben permanentata e vestita di cotone leggero era salita sul pullman, s’era seduta subito dietro di lui, il conducente, ed era bastata qualche sua parola di cortesia, un buongiorno detto cristianamente e, più tardi, un complimento per la guida così pacata e ferma, e ancora: “vuole due tarallini?”, per risvegliare in Ninì quella dolorosa paura della vita che, come un cane stuzzicato mentre dorme, si metteva a tumultuare nella cassa toracica e lo rendeva impossibilmente avido di un sorriso. Di un abbraccio magari.

Quella donna esibiva una tale espressione di benignità che, fatta la sua conoscenza, Ninì non poteva non ritenere giunta la volta buona per parlare finalmente del suo Beppe.

La donna, vedi il caso, s’era sempre gloriata d’essere una specie di missionaria e per questo se ne andava in giro per la città a fare del bene (o credendo di farlo!) facendosi ostinatamente carico dei problemi altrui. Detto più chiaramente: non sapeva farsi i cazzi suoi.

nicola saccoRacconti A Vita Bassa

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sisifeide

la lingua non si staglia sullo scrimolo per proclamare la sua costernazione abbaiando alla sconcia italia. ci arriva appena, spolmonata e ascetica, sfiancata dalle impervie rampe. slombata la lingua che impara a “morire in bici”. s’acceca e si spaura quando che è al sommo, sicché la vertigine la ributta indietro. ricacciata giù per lo stesso versante appena scalato, tutta rovesciata e rattorta, ellalingua riattacca l’erta del dire le cose, ora anfanando ora cantando, quando imbestiando quando ricamando, ma sempre alla caccia della migliore adesione alla realtà (andata in fuga). non ha il gusto della pesca nel torbido perché non è ruffiana né cialtrona né puttana. la mia lingua. RAVB era cognazione d’affetti coi via di testa. e lo stesso l’Anaconda. sarà per il pessimismo di una visione della vita in salita ma almeno è costretta a ricercare la migliore funzione espressiva dei mondi che sceglie di narrare. ben altro che scrivere per mondadori! nevvero, saviano? nevvero, piccole editrici autodistruttive, fresche fresche del nuovo imperativo di mimesi mondadoriana?
nel momento in cui la lingua raggiunge la vetta sa che ha appena un attimo per gridare la sua invettiva congestionata, che poi non ha più tempo e deve rotolare giù a “svolgere il compito cui è stata chiamata” (direbbe qualcuno).
che fa lo scrittore, ancorché scrittore civile? non affronta l’arte di dire le cose, bensì l’erta di dire le cose.
e scusate se sono nicola sacco

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