letteraria, minimi sistemi

La lingua morta del Potere /3


“Davanti la legge di stabilità ci vuole un atteggiamento critico quanto si voglia ma che sia sostenibilmente propositivo […]” (cit. Giorgio Napolitano)

Ancora uno stop nella trattativa tra Stato e lingua italiana.

letteraria

La lingua morta del Potere /2

di Rita Santamaria

Non so se questa lingua morta è l’effetto della débâcle politico-sociale ed economica o se ne è la causa. Cioè non so se la parola non più vera, non più viva, ridotta a merce, è stata essa stessa parte attiva, causa, agente, nella creazione della “morte” in campo politico sociale ed economico o se ne è solo l’effetto conseguente. La linguistica, la filosofia e la psicologia hanno spesso evidenziato come a volte nei processi cognitivi della mente umana certe cose esistono solo in quanto dette o si creano nel momento in cui si dicono. Questo uso debosciato della parola del potere (che ha il suo braccio operativo nei media) credo crei delle dannose interferenze nei processi cognitivi-evolutivi della società così come le tette al silicone le creano nei processi di selezione naturale darwiniani.
Condivido con te un stralcio di un saggio sul linguaggio e la retorica che ho studiato a proposito dell’autore che trattavo nella mia tesi di laurea (Carlo Michelstaedter), che sì, ci porta lontano dall’aspetto pragmatico del tuo intervento su Sud Critica, ma che mi sembra carino per gli spunti di riflessione che offre.
Nel pezzo in questione si sostiene che il razionalismo abbia laicizzato la parola divina che in origine era la Parola per antonomasia (dal fulmine disegnato nei graffiti, a quello di Zeus - esempi di immagine come linguaggio - ai testi religiosi). Si analizza la questione nel contesto ebraico (perché è quello in cui si colloca il mio autore, ma è cosa irrilevante) , si sottolinea la contrapposizione tra il termine ebraico “davhar”, ‘parola’ e lo stesso termine nella lingua che dà inizio alla civiltà occidentale, il greco: “logos”, ‘parola’. “Davhar” vale insieme ‘parola, cosa, atto’ e il significato che deriva dalla sua radice reca la nozione di ’spingere avanti’ qualcosa che inizialmente è tenuto indietro. È una parola vera che è insieme un oggetto o una cosa, un azione o un atto. “Logos” è invece un concetto intellettuale, con un senso radicale che implica il ‘raccattare, arrangiare, porre in ordine’ (simile a quello inteso dalla nostra politica ). Il gesto evocato da “davhar” si può svolgere in ‘parla, attua, sii’, mentre quello richiamato da “logos” è ‘parla, conta, pensa’, che rende quindi ragionevole il contesto del parlare, ma non ne chiarisce la funzione!
“Davhar” spingendo avanti ciò che è celato nel sé, concerne invece l’esposizione: il dare alla luce una parola, una cosa, un’azione. “Logos” non dà alla luce niente (parola morta) se non speculazione.

minimi sistemi

Parole in libertà condizionata

“Vergogna, giustizia, amore, libertà, ribellione, bellezza, scelta. Anche solo chiamare le cose con il loro nome è un gesto rivoluzionario.” Così Gianrico Carofiglio, magistrato, scrittore e deputato PD, ha scelto di promuovere il suo saggio La manomissione delle parole.

Ora, qui si accetterebbe pure la totale autonomia del significato dal significante (soprattutto in arte) ma tre parti in commedia – ribadisco: magistrato, scrittore e deputato PD – sembrano troppe e lo sconfinamento nel gioco delle tre carte è un pericolo concreto. Chi parla? La toga, il romanziere o l’uomo politico? Passi che a parlare siano i primi due ma nel momento in cui ci si infila in una casacca politica, e si scrive un testo dalle ambizioni socio-politiche, il terreno si fa scivoloso e l’intestazione di certe battaglie contro la degenerazione del linguaggio nel discorso pubblico, contro l’impoverimento espressivo indotto dalla lingua del potere e dai suoi slogan, ebbene, questo nobile impegno per difendere le parole dal saccheggio, dall’insolenza e dalla prepotenza dei leader politici, acquista il sapore sgradevole della doppia morale. Oh, quanto candore occorrerebbe a Carofiglio perché non veda la radicale dissociazione tra le sue sacrosante digressioni e le indecenti pratiche partitiche adottate dalla sua stessa formazione politica, ad ogni livello territoriale. Qualunque sia il campo d’osservazione (dal locale al nazionale) si nota un unico, implacabile fenomeno: la rincorsa, affannosa fino all’inevitabile caricatura, a qualcosa che è già una tragica e devastante caricatura in sé. Il berlusconismo. Additato appunto come il principale brutalizzatore della lingua. Che turpitudine possa mai essere questa caricatura di una caricatura, questo sconcio scimmiottamento di una scimmia, pare invece un fatto da passare sotto silenzio.

Uno slogan per tutti, qui al mio paese: IL CORAGGIO DELLE SCELTE.

Chi sarebbe l’intrepido possessore di questo onorevolissimo attributo? Il candidato sindaco del PD, naturalmente. E non si trascuri la forza del partito che quel candidato oggi esprime e che di quel coraggio (delle scelte) vuol essere contitolare. Bene, chi vive a Modugno non potrà non notare come sia curioso e stonato che figure già in partenza tutt’altro che ardimentose si attribuiscano unilateralmente una virtù che mai nessuno si sarebbe sognato di riconoscere loro (con tutta la recente storia amministrativa che basta a sconfessarle prima d’ogni altra cosa proprio sotto l’aspetto del coraggio). Si aggiunga che all’indomani del primo turno della consultazione elettorale è seguita una commovente vicenda di riavvicinamento familiare, in vista del ballottaggio, tra PD e UDC, i quali sono così addivenuti ad un accordo politico-programmatico che molto probabilmente consentirà loro di vincere al secondo turno. Il tutto, però, dimenticandosi di formalizzare l’apparentamento. Che sarebbe come dire che proprio davanti all’unico atto che potevano porre in essere, questi prodi, questi valorosi, questi coraggiosi, questi duri a morire, precisamente nell’ora della scelta si sono tirati indietro. L’intesa è sostanziale ma non è ufficiale; più crudamente, l’accordo è stato raggiunto alla zitta, o sotto banco che dir si voglia. Lo svuotamento delle parole è felicemente riuscito. La truffa semantica pure. L’appropriazione indebita di attributi compiuta. Lo slogan usato in senso perfettamente berlusconiano.

Va da sé che non di sola tartufaggine si tratta. L’operazione è stata infatti deliberatamente concepita per appropriarsi di una seggiola in più, un posto di minoranza (e quindi di garanzia, cioè di democrazia) spettante ad uno dei candidati sindaci non vincenti. Come chiamare tutto questo? Se ci fosse Berlusconi o anche solo sua sorella non si avrebbero dubbi: concezione padronale delle istituzioni, cancellazione dei presidi democratici, aggressione ai danni delle voci critiche.

p.s. 1 Indagini della magistratura barese su mezzo centrosinistra che andrà a comporre il consiglio comunale. Le notizie trapelano timidamente (fin troppo timidamente) dalla stampa locale ma a detta del PD i giornalisti vogliono sostituirsi ai politici e poi gli elettori si sono espressi chiaramente. Ma non s’era detto che il consenso elettorale in alcun modo poteva costituire un lavacro per chi aveva commesso reati?

p.s.2 Il probabile sindaco di questa ridente cittadina si avvantaggia della prescrizione per un’altra vicenda giudiziaria. Per molti (quasi tutti) quindi è innocente. Chi chiede scusa a Minzolini? Io no, sicuramente, ma qualche elettore del centrosinistra gliele deve, non ho dubbi.

minimi sistemi

la bella politica

Si dovrebbe ormai fare la politica che non si sa, tentando su due piedi un bandolo, ritrovando un io che stabilisca un capo e una coda, un individualismo, avete capito bene!, ovviamente di segno opposto a quello in voga di ’sti tempi (il quale è, a ben vedere, millantato individualismo, peggio!, strumento della spoliazione dell’io). Bisognerebbe ripartire proprio dal dire io creo e quindi io esisto (banalizzando: prendere coscienza di non essere dei vermicioni col sondino nasogastrico somministrato a capriccio dal maschio di stato o dalla picciocca ministeriale), in aperto conflitto con i bercianti filastrocche funebri, possessori di tutto che null’altro hanno da chiedere se non mantenere quel tutto per specchiarvisi, scaricando questa pulsione di morte, in cui consiste il loro mancato volgersi al futuro, sul resto della congerie umana per continuare a meglio depauperarla di beni materiali e immateriali. Questo ci vorrebbe, un nuovo e bellissimo individualismo che conosca prima di tutto la bellezza dell’autosmascheramento fino all’utodenuncia, fatta su pubblica piazza, della propria meschinità, cioè dell’abominio che chiamiamo Uomo. Bonificarsi dalla schizofrenia tra ideologia/catechesi professata e vita vera del sangue. Provare a officiare questa specie di messa purgatoriale, facendo allo stesso tempo il ministro di io e la sua pecorella, e alla luce del sole, non all’ombra di “materni confessionali”.

Dopo, solo dopo, cominciare a masticare l’ostia: non andare a carretta dei messaggi di salvezza, non farsi vicari del mito della purezza, non ancillari ad alcun vecchio potere, non portavoce di alcuno nuovo in via di solidificazione già oggi.

le torsioni dell'anaconda

Nudi re e sudditi

L’anaconda perché mi pareva ben potesse significare “scandalosa bestia”, e mi serviva un’immagine per lo scandalo di cui volevo parlare. Mi tocca precisare: scandaloso non il rettile in sé ma la simbologia fallica che i serpenti incarnano nell’immaginario collettivo. Mi dovevo servire, su un piano simbolico, del livello di scandalo che può essere raggiunto e provocato nella percezione comune dall’ostentazione e dall’ostensione in piena luce di un fallo dalle dimensioni “grandiose” (un anaconda appunto) per richiamare l’attenzione su quanto davvero e unicamente merita la qualifica di “moralmente scandaloso”: la violazione dell’intimità operata da una determinata struttura sociale (hegelianamente uno stato, pasolinianamente un potere). Ho cercato quindi di raccontare - articolando sul doppio motivo della reclusione/occultamento del “brutto” e del decoro nelle sepolture dei morti - il conflitto storico, eterno e immanente, tra valori sociali (più o meno legittimi e condivisibili) esteriori, da un lato; e dall’altro le ragioni intime (allo stesso modo più o meno legittime e condivisibili) profonde, notturne e irrazionali come le potenze buie, di chi teme più di ogni altra cosa l’esposizione “agli occhi di tutti” delle proprie miserie e vergogne o anche, puramente e semplicemente, della propria intimità. Se, in definitiva, mi ritrovo a raccontare la mia società, questo accade non per programma concepito a tavolino ma per una sorta di emersione ineluttabile della società stessa, manifestazione la cui prepotenza è tutta nelle spinte ascensionali prodottesi con l’adozione di quella precisa chiave.

Senza categoria

la sprotezione civile

ahi, la sconcia italia che mi costerna. e non mi vede.
la borghesia diffusa che ha soppiantato il quarto stato non inalbera vessilli di vendetta per i ventri incavati, lo sfruttamento secolare e l’atavica fame. sul proprio stendardo ci stan delle mutande e le teste spiccherebbe a chi del potere ha fatto una questione di vizio del quale ella non partecipa. non più pane, pane! romba il tumulto ma fica, fica! solo che il grido è come represso e le resta nella strozza perché la borghesia diffusa dacchè è tale, spesso piccola e pudibonda, da quel greve mottetto è come imbarazzata, per cui trova più confortevole riparo nel moralismo. da tempo pencola tra il definitivo benessere e la miseria più sozza, troppo occupata a mantenersi in equilibrio su cotanto scrimolo, precludendosi in tal modo sia il sollazzo e le bonazze da oligarchi che il sudiciume dell’accoppiamento selvaggio degli uomini ridotti come animali.

letteraria

Giustizia /3

La giustizia umana e quella divina

di Giuseppe Giglio

(Recensione del romanzo Giustizia, di Friedrich Dürrematt - Marcos y Marcos, 2005, pubblicata sul n. 1/2006 diStilos“)

«Ancora una volta voglio sondare scrupolosamente le probabilità che forse restano alla giustizia». Sono tra le prime, sconcertanti, drammatiche note di una lunga «relazione» con cui si apre Giustizia. Felix Spät, giovane e squattrinato avvocato, scrive dell’assurda assoluzione di un assassino. In un noto ristorante della Zurigo degli anni Cinquanta, frequentato dai notabili della città, il consigliere cantonale Isaac Kohler, con un colpo di pistola, uccide a sangue freddo un famoso professore universitario. Lasciatosi docilmente arrestare e incarcerato, Kohler (che non ha mai svelato il movente del suo gesto) convoca Spät, da poco sganciatosi, da «galoppino o poco più», dallo studio di Stüssi-Leupin, l’avvocato più in vista della città, abilissimo intermediatore al servizio dei potentati economici. Dietro ghiotto compenso, Kohler, «perfettamente felice» in carcere, chiede al legale di riesaminare il caso, partendo dall’assurda ipotesi che non sia lui l’assassino. Spät – insospettito, ma costretto ad accettare dal bisogno – capirà poi di essere caduto vittima di un’infernale macchinazione, di essere divenuto, con le sue indagini, involontario istigatore di diversi omicidi, sullo sfondo di complicità e connivenze impensabili. In un Paese che «è uscito dalla storia quando è entrato nel grande giro industriale», il Potere ha ormai piegato la giustizia alle sue esigenze; e Kohler - «un uomo a cui piace giocare la parte di Dio su questo miserabile pianeta», da formidabile burattinaio all’interno di una guerra economica non meglio definibile (gestisce gli affari di Monika Steiermann, diabolica nana a capo di un enorme impero economico, tra le cui attività è anche il traffico di armi) - si diverte a manovrare gli esseri umani come palle da biliardo, persino dal carcere. Giocando à la bande, mandandole tutte in buca, intrecciando con stupefacente abilità la vischiosa ragnatela in cui sono implicati, consapevoli o no, compiacenti o no, i personaggi di questo eretico e magistrale giallo. Una storia complicata, surreale e grottesca, al limite del paradosso, ma filigranata da una scrittura elegante, raffinata, essenziale, allusiva, che cesella quadri di meccanica precisione e obiettività, e che sviluppa al massimo grado la dürrenmattiana tendenza centrifuga parodistica, autodistruttiva e demistificante: tra traffici di armi e prostitute, megere e intoccabili, sparizioni e omicidi, in un Paese che ha prodotto gli orologi di precisione e gli psicofarmaci, il segreto bancario e la neutralità perenne. Un congegno perfetto, che porge al lettore i dubbi di Dürrenmatt circa il rapporto tra la realtà criminale e la finzione “gialla”, ma soprattutto sul significato della giustizia umana e di quella divina, sulla relatività del concetto stesso di giustizia, sul senso del farsi giustizia da sé quando il crimine intuito non può essere dimostrabile, quando a Spät, dopo l’assoluzione di Kohler, per evitare che la giustizia diventi «una farsa totale», non resta altro che prepararsi per un «assassinio giusto». Ma dovrà arrendersi al caso beffardo. E sempre al caso Dürrenmatt affida l’inatteso epilogo: uno scrittore (cui era pervenuta la «relazione» di Spät) incontrerà, trent’anni dopo i fatti, Kohler, vecchissimo, e sua figlia Hélène, con cui avrà un lungo colloquio; è l’inizio di una discesa all’inferno, nelle profondità dell’animo umano, per scoprirne lacerti davvero sorprendenti, fino alle difficili, inquietanti domande finali: «Chi è colpevole? Chi dà l’incarico o chi lo accetta? Chi vieta o chi non osserva il divieto? Chi emana le leggi o chi le infrange? Chi concede la libertà o chi la ottiene?». Non è facile rispondere. Ma Dürrenmatt - dopo aver incastonato tanti tasselli nel mosaico di un personaggio-uomo multiforme e irregolare, di cui proprio il triangolo Spät-Hélène-Kohler offre un esempio mirabilmente efficace – ha provato a sollevare il velario su un’irredenta quotidianità: per mostrare, tra visioni apocalittiche, doloroso disincanto e sottile tormento morale, come gli uomini vivano ormai in un labirinto di specchi franti, dove i confini tra etica (ridotta a mero gioco dialettico) e opportunismo, dipendenza e libertà, sono molto sottili, in un mondo in cui persino il diavolo è stanco e in cui si può morire «di quella libertà che concediamo e che ci concediamo»; in un mondo che assomiglia sempre più a «una polveriera in cui non è vietato fumare».

Giuseppe Giglio

diario di un giullare timido, funghi patogeni, riflessioni su due ruote

Libertà di una lavatrice

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA INTERNO 12

Le passioni e gli appetiti della società degli uomini: Il Potere Vs La Giustizia. Il papa non serve che sia cattolico così come non serve che un giudice sia giusto. Uomini che sembrano troppo grandi e pesanti per la loro ossatura.

Televisione = società della scarsità delle risorse. I Cesaroni Vs Annozero. Scampoli di commedia all’italiana Vs scampoli di informazione.

Incartamenti di parole e altri peni pieni di euri e scadenze. La lavatrice. Una volta camminava. Non le avevo tolto i distanziali e lei camminava. Era uno spettacolo. Ansia di libertà di una lavatrice.

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA ESTERNO 12

Una maledizione di guano nella stradetta, di pesce dalla pescheria vicina, di morti.

Di morti maledicenti, ecco, non più maledetti. Uomini morti sderenati da tali sondini che sembran vivi. Emanano odore di fiori incomparabilmente belli e marci.

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA INTERNO 12

Il divano-letto-di-morte perennemente aperto. Piace Lance Armstrong stavolta. Non perché debole, no. Ma perché quell’uomo in bici recupera e ricompone la nobiltà dell’uomo, se esiste.

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA ESTERNO 12

Sono di fretta. Mi mettono fretta. Mentre faccio delle cose un ragazzo sui trent’anni mi costringe a interrompere. Una corporatura troppo grossa e pesante per la sua ossatura, sembra uscito da un libro che sto leggendo. Una contrazione sulla faccia gli conferisce un’espressione sofferente. Come se soffrisse mostruose calure da generazioni.

  • Ma questo a che serve? – ha la pastella agli angoli della bocca e anche al centro delle labbra. Ogni volta che quelle si schiudono rimane una fettuccina di questa ricottina a far loro da esile congiunzione
  • Serve, serve – cerco di liquidarlo.
  • E come, spiega.
  • Ok, te lo spiego.
  • Eh, spiega, spiega.
  • Vedi questo? Qui ci devi inserire quello.
  • Ah, davvero? E che ci fai?
  • In questo modo ottieni questo risultato –, penso di aver concluso.
  • Come questo risultato?
  • Questo!
  • Ma quale risultato?
  • Quello che ti ho appena detto! – mi innervosisco.
  • E spiega. Spiega bene – mi fa con un’espressione tra l’implorante e l’ottuso.
  • Allora… -, e gli ripeto tutto quanto.
  • Ma come?
  • Ma come come? Così! -, sono spazientito.
  • Così? E come così? Spiega, spiega bene.

Ripeto tutto come un automa, mentre osservo le sue labbra rosse come sacche piene di sangue fresco e il filamento che ostinatamente si riforma e non si stacca.

Non è, però, il libro che sto leggendo.