diario di un giullare timido, le torsioni dell'anaconda

Ascessi

elevato in ispirito, insensibile alle cose terrene, alle quistioni corporali, all’amor carnale, al secolo. grande santità. svolgo prieghi per le anime del purgatorio, digiuno, reco cerchi in ferro alla carne, parlo lugamente di dio, a satana cacogli in bocca. certe sirocchie mie seguitano l’esempio, conformandosi in cristo crocifisso e benedetto. se non predico sto mutolo.

mansueta l’anaconda, passa da un uscio all’altro e quando si parte da questo mondo grande compunzione nei cuori dei concittadini ché ellaserpe ricordava i miracoli miei.

ho le stimmate.

dio vuole cinquantamila euro per il riscatto.

le torsioni dell'anaconda, letteraria

Io canto /2

Come fu che la divina, Beatrice Blasonai, addivenne alle pagine del Sacco.

Lo spiega lei stessa al mio amichetto immaginario al tempo in cui questi fu ratto in ispirito in lei medesima:

‘O anima cortese mantovana, / di cui la fama ancor nel mondo dura, / e durerà quanto il mondo lontana, / l’amico mio e non de la ventura, / ne la diserta piaggia è impedito / sì nel cammin, che volt’è per paura; / e temo che non sia già sì smarrito, / ch’io mi sia tardi al soccorso levata, / per quel ch’i’ ho di lui nel ciel udito. / Or movi, e con la tua parola ornata / e con ciò ch’ha mestieri al suo campare, / l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata. / I’ son Beatrice che ti faccio andare; / vegno del loco ove tornar disio; / amor mi mosse, che mi fa parlare.

letteraria

Ingannamorte

Se l’era andata a cercare lo stronzone.

Ninì e l’autobus definivano insieme un grumo di dolore a quattro ruote che viaggiava su e giù, avanti e indietro, per strade provinciali.

Voleva solo parlare a qualcuno di suo fratello.

Quella volta una signora ben permanentata e vestita di cotone leggero era salita sul pullman, s’era seduta subito dietro di lui, il conducente, ed era bastata qualche sua parola di cortesia, un buongiorno detto cristianamente e, più tardi, un complimento per la guida così pacata e ferma, e ancora: “vuole due tarallini?”, per risvegliare in Ninì quella dolorosa paura della vita che, come un cane stuzzicato mentre dorme, si metteva a tumultuare nella cassa toracica e lo rendeva impossibilmente avido di un sorriso. Di un abbraccio magari.

Quella donna esibiva una tale espressione di benignità che, fatta la sua conoscenza, Ninì non poteva non ritenere giunta la volta buona per parlare finalmente del suo Beppe.

La donna, vedi il caso, s’era sempre gloriata d’essere una specie di missionaria e per questo se ne andava in giro per la città a fare del bene (o credendo di farlo!) facendosi ostinatamente carico dei problemi altrui. Detto più chiaramente: non sapeva farsi i cazzi suoi.

nicola saccoRacconti A Vita Bassa

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sisifeide n. 2

affermo pasolinianamente, cioè, che la lingua mondadoriana (mi riferisco alla narrativa e agli autori italiani della scuderia mondadori), nella sua veste di facile parlabilità, nella sua essenza di fluente semplicità che del dire non conosce inciampi né rattrappi né sbalzi, è perciò la lingua della “cultura ufficiale”, la quale cultura, come la “storia ufficiale”, è scritta (con ciò intendendo: enunciata, espressa) dai vincitori. come tale essa rinuncia all’avventuroso, al piacere dell’escursione e dell’inatteso, abiurando così anche all’incursione nell’inatteso. in poche parole rinuncia all’invenzione. e non v’è chi non veda come questo fenomeno abbia ben poco di artistico. il “vincitore” letterario, o colui che ambisce ad esserlo, non ha che da non avere coraggio, non ha che da evitare di osare. PROGRAMMATICAMENTE. questa è la lingua del potere, lingua morta e lettera morta poiché di essa, e dei libri in cui è scritta, niente rimarrà. è, questa, una previsione talmente facile perché consegue dalla totale mancanza di metafora, di espressività e di valore simbolico, riscontrata negli oggetti osservati.

letteraria, minimi sistemi

desiderata platea

Approdo di demenza della nave dell’amore in un disegnetto brianzolo-italiano:

“La prossimità nonché il commercio delle genti e’ son grandemente appetiti dai vanitosi e da tutti quelli cui natura ha devoluto un temperamento narcissico: (indebitamente ritenuti sociali e lodati come tali). Della società non gliene importa un cacchio: e vi si destreggiano secondo la brama e la tecnica centripeta del più puro egoismo. Ma vogliono gli altri, li vogliono vicini e fisicamente presenti: e di una cotal presenza godono, godono: perocché la straripante carica erotica del loro narcisismo ovvero auto-erotismo ella necessita di una adeguata parete di rimbalzo cioè superficie di riflessione: di uno specchio grande, in poche parole. Gli umani funzionano per loro da specchio psichico: e, se essi talora li amano, soltanto li amano in quanto specchio lusingatore. Salotti, alberghi, piroscafi, e monti e spiagge balnearie e marciapiedi dell’avenida e caffè ne vanno in rigurgito di cotestoro: e dovunque ne incontri.

Il meccanismo autoerotico allogasi, qual più qual meno, in tutte le anime: nelle più ritenute  e modeste, nonché nelle ciarliere ed ingenue: come quelle del garzone del parrucchiere andaluso, venuto e trasmigrato dalle lontane sierre verso la sua straordinaria speranza.

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Pater pa(r)tito

Ci sono momenti che sembrano scoccati appositivamente a inveramento del detto ‘nella vita nulla accade per caso’. Adesso imperversa il Padre, trattato con guanti(ni da zarevic) a certi piani alti del ‘romanzo’, e più modestamente affrontato anche dal sottoscritto in chiave prevalentemente patologico-ossessiva. “Di sepolcri, di sepolcruli!”, si potrebbe strillare. Si potrebbe strabiliare. E il tema di far riposare in pace i nostri morti si rovescia sempre nell’inconscio e maldestro tentativo di far riposare in pace le nostre vite hic et nunc.

Questi momenti sembrano comporre il catologo ragionato dell’anaconda, un mondo di solito molto più irragionevole, dove poi ogni cosa cade a fagiuolino occhipinto. Discettando di padri può capitare di passare all’esegesi dei patronimici. Un cerchio blu infinito, e in lui un astro… però sarebbe più un matronimico, e spirituale. Si prega di non andare a pescare tra le maglie blucerchiate l’esemplare tipico di devoto a San Nicola. Già fatto.

Ma le curiose ridondanze fioccano. La Grande Madre Penna che rinomina i suoi toy boys ha visto al cinema il manga in 3D Astro boy?

E vogliamo parlare poi di questi animali e piante, così somiglianti ad esseri umani, che paiono travasarsi da un’opera all’altra?

in questi momenti il mondo interlacciato può diventare una vertigine fatale. Letale per chi legge.

letteraria

Laboratorio di scrittore

A prendere vita in queste pagine di Fattacci (di Vicenzo Cerami) sono i lugubri conducenti di una vettura vocata allo schianto. Ex pugili, canari, nani, plebei, marchesi e bon vivants che covano “una sperimentata vocazione al disfacimento”. Entrare per caso nel loro raggio d’azione è una sciagura terribile, significa varcare i cancelli di una depravazione che, consumate tutte le sue estreme esperienze, non ha niente altro da offrire, al finale, se non tragedia. Vite intrecciate da legami tanto fragili quanto totalizzanti per la loro natura morbosa quando non sadomasochistica. I soggetti terzi che intervengono a rompere questi delicati equilibri, questi ordini ipocriti e degeneri, altro non fanno che imboccare, senza saperlo, una via buia alla fine della quale vi è invariabilmente morte.

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Ma non sono un critico letterario, eh …

Sono pagine di storie curiose e di risate, di polle, crete e contrafforti; rocciose o boscose come l’universo che racconta. Fresche nonostante l’acqua calda termale attorno a cui tutto ruota. Libro scavallante tra le groppe della vita come la gambe nude scavallanti dal predellino di una Bentley per porgere all’onor del mondo una stratosferica bellezza russa.

Scritto a flusso, si legge a tonfo. Lingua bombardante come una contraerea quando la narrazione si fa guerrigliera, liricamente commossa quando vuole restituire la solitudine di un cipresso.

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