(…) aveva destato la mia attenzione per il suo greve odore; già aveva avuto il tempo di riscaldarmisi addosso e mandava un puzzo sempre più forte dii medicine, di impiastri e, come mi pareva, di non so qual putridume, il che non faceva meraviglia, dato che da tempo immemorabile non abbandonava le spalle dei malati. Forse la sua fodera di tela sul dorso era stata qualche volta lavata, ma di sicuro non lo so. In cambio questa fodera era presentemente imbevuta di ogni possibile sgradito umore, di fomente, di acqua scolata dai vescicanti incisi, e via dicendo. Inoltre nelle corsie dei detenuti ne comparivano molto spesso di quelli puniti con le verghe, col dorso tutto piagato; venivano curati con fomente, e perciò la gabbanella, indossata direttamente sulla camicia bagnata, non poteva assolutamente non deteriorarsi: a tal punto ogni cosa vi si depositava sopra. E durante tutto il tempo passato da me nel reclusorio, in tutti quei vari anni, appena mi accadeva di andare all’infermeria (e ci andavo piuttosto spesso), indossavo ogni volta la gabbanella con timorosa diffidenza. In particolar modo poi non mi piacevano i pidocchi, grandi e notevolmente grassi, che a volte si incontravano in quelle gabbanelle. I detenuti li giustiziavano con voluttà, tanto che, quando sotto la spessa e sformata unghia del detenuto si udiva lo schiocco della bestia giustiziata, perfin dal viso del cacciatore si poteva giudicare del grado di piacere da lui provato.

F. M. Dostoevskij