Archivi per il mese di Maggio, 2010

altri spot, diario di un giullare timido, le torsioni dell'anaconda, letteraria

il mio Suttree

ecco, questo, forse: si scrive per dinamizzare il punto di vista su acque nere stagnanti. per edificare un viadotto a sovrastare una gola in fondo alla quale scorrono i liquami.  per posare delle condotte nella vita e farci passare la verbalizzazione. per articolare con parola anche il mondo preverbale. questo il movente. le posizioni da cui si osserva invece attengono al piano delle scelte stilistiche: da sopra, da sotto, dal di dentro, dal lato. ognuno come può. il vecchio Cormac meglio di molti mentre voga dal suo “schifo”.

altri spot, le torsioni dell'anaconda

mortacci

L’evocazione di un ciclo organico sballato, come il ribaltarsi del naturale avvicendamento delle stagioni, è il tentativo di rappresentare allarmi e pericoli dalle connotazioni apocalittiche : la confusione tra sfera dei morti e sfera dei vivi stravolge a tal segno il processo di conoscenza della realtà da creare un universo particolarmente terrorizzante. la ruota dell’essere ne è oscenamente sovvertita. una roba da fornire un canone autorevolissimo anche per l’interpretazione di Romero e dei vari zombies da B-movies. per tacer di Sergio Citti che da quel suo film del 1989, per finezza lirica, esce come un gigante del pensiero occidentale. altroché.

invece è chiaro che a costituire il primato del medesimo pensiero è solo l’anaconda .

le torsioni dell'anaconda

oscillazioni sepolcrali

Vita Maria Germinario si reclude o da altri è reclusa per le vie della manipolazione mentale in quanto è negata un’onorevole sepoltura ad un suo congiunto. negare gli onori funebri ad un uomo è una profonda violazione di imperativi ben più antichi di quelli giudaico-cristiani; un sepolcro irrisolto induce confusione tra regno dei morti e pretese dei vivi, e per questa ragione è avvertito come “contronatura” (nondimeno parliamo di un problema mitico). il movimento inevitabile, complementare e anzi simbiotico a una siffatta condizione di morti con un piede ancora nel mondo dei vivi, è il vivo che discende nella tomba per un condotta appunto spettrale: Vita Maria murata viva, intombata. e i germogli a impazzire nella madre terra finché non si sarà ristabilito il corretto ciclo organico.

altri spot, diario di un giullare timido, le torsioni dell'anaconda, letteraria

I miei degenerati

Sono scrittore non perché commerci col potere ma proprio perché non intrattengo ancillarità alcuna col potere. Sono scrittore di e in una cultura “altra” rispetto a quella della classe dominante, niente affatto interessato alla facile parlabilità cui quella è pervenuta, estraneo pure anche all’ottimismo da “magnifiche sorti e comunicative” di quella. Sono scrittore, bravo o meno non importa, per predestinazione e quindi per necessità. Sono scrittore proprio perché mi va di ricorrere al dialetto epperò senza ruffianerie, cioè senza glossari, quindi per totale fiducia nel suo potenziale espressivo. Sono scrittore perché vivo attraverso i miei degenerati, i figli di famiglie infelici di RAVB, raccontati nel passaggio dalla loro dimensione chiusa e arcaica all’aria aperta della società che li detesta, e perciò stesso divorati dalle nevrosi, e in tale passaggio resi all’istante dei disadattati senza speranza che come uomini si adempieranno soltanto nella perversione. Sono senza speranza loro perché sono scrittore pessimista io. Pessimista in quanto come scrittore non faccio altro che farmi incrinare, deliberatamente, le mie certezze strutturalistiche. E ogni volta mi rifaccio una verginità strutturalista e ogni volta me la spappolo. Poi, i miei “poveri”: non li seguo con umanitarismo peloso, il modo più facile per abrogarli del tutto; piuttosto me li faccio e da loro mi faccio fare, in senso genitale e quindi creativo. Sono scrittore perché trovo che la più bella novità dell’anno nel panorama del “raccontare” sia quel Sergio Citti filmato da Martone mentre commenta il suo filmato girato una decina di giorni dopo la morte di Pasolini, all’idroscalo di Ostia. La forza di quel racconto è proprio la forma, un loop doloroso, lo stile iterativo e ossessionato, e, letterariamente, la lingua di Sergio Citti, lamentosa, manicomiale, con dentro tutta la nostalgia di sapersi irrecuperabile a ogni ottimismo, ad ogni perfezione. “Ecco qui la maaghina […] erano due le maaghine …”