Archivi per il mese di Gennaio, 2011

letteraria

Sei sulla porta

Da L’odore della pioggia (Ed. Laterza, 1980, pagg. 71) di Tommaso Di Ciaula

Sei sulla porta

con i tuoi nastri

con i tuoi capelli

con i tuoi occhi

con il tuo sesso

tra gradini interminabili di calce

stentati gerani

mulinelli di polvere.

Dentro casa i tuoi vecchi

lupi che ti amano

che farebbero qualsiasi cosa per te,

sulla strada dietro le persiane

la brava gente si ferisce gli occhi

al sole meridiano pur di spiarti:

scrutano il tuo pallore

i tuoi rossori

i tuoi gonfiori

le tue tumefazioni

gli aloni rossi sulle tue pezze,

e tu sei lì sulla porta

sorda immobile pigra

ad odiare ad odiarti

e non hai altra arma

che un grezzo coltello

che odora di aglio

alla tua rabbia.

letteraria

Una realtà che levati

Non si ammette irrealtà della parola scritta (vergata nel Romanzo o nella Poesia da uno Scrittore) in quanto nella vita del genere umano non v’è niente di più reale. Più reale anche al cospetto della vita comunemente detta reale. Anzi, se c’è qualcosa di irreale nella vita del genere umano questo qualcosa è proprio la vita reale (comunemente detta), spesso condotta in modalità ’strambare’, appoggiata o impostata su sogni loffi o un po’ sballati, nella migliore delle ipotesi; delirante e segnatamente da incubo, nella peggiore.

Il libro di Giuseppe Giglio viene anche a ricordare queste parole di Vitaliano Brancati: “Il mondo è fatto di buoni libri: senza di essi, dietro di noi non ci sarebbe nulla; il mondo comincerebbe ogni mattina per finire la sera”.

letteraria

ciò che non siamo e non vogliamo

la coincidenza tra biografia e opera, dunque, non è un’ideologia ma una deduzione, una decifrazione tratta dalla realtà rimescolata in pagina. quanto è scritto non può non contenere tracce del sé scrivente; lo scrittore insuffla la vita nei personaggi, certo è indispensabile, ma se non ci mette la generosità, cioè se nella storia non ci sbatte se stesso, e se evita di farlo allo scopo di magnificarsi ma anzi lascia intendere o, meglio ancora, mostra del tutto la propria sgradevolezza, ha fatto cosa sacrosanta. quindi saviano non va bene, non è uno scrittore, non un facitore di letteratura.

letteraria

ad armacollo

E siamo lì: un racconto nato da un che lo sguardo a caso pone, come Democrito il mondo, è il frutto che viene alla fine di un processo di divagazione e di diletto. “Gli antichi miti” e “le mitiche memorie” presenti per sedimentazione in chi legge, ché se proprio vuole scrivere alla battaglia ci deve andare acculturandosi, non troppo magicamente affioreranno e ne ispessiranno la poetica.

letteraria

Dilatata pupilla

Ho rimeditato a lungo lo scioglimento dei dilemmi posti nell’articolo precedente, giungendo alla conclusione che se avessi azzardato delle risposte avrei finito per incasellare temi e trinciare giudizi ai quali avrei potuto anche impiccarmi. Inoltre mi sembrava di tornare su argomenti da me già fritti precedentemente a proposito dell’irriverenza verso verità precostituite e della necessità di mettere in discussione anche quanto si crede di aver guadagnato alle proprie certezze. Temevo di ripetermi e annoiare, insomma. Incasellare è un po’ morire e non è un caso che abbia accusato un impeto di inaridimento, un blocco che finora non avevo mai sperimentato proprio laddove cercavo di fare giù un discorso organico. Decidevo, pertanto, che ero uno incapace a statuire alcunché.

Dice: “allora te scrivi e scrivi ma non hai un progetto sulla lingua”. Bon, a parte che sulla lingua affettivamente non avrei un progetto ma una carta geografica, quella sì … Bon, potrebbe anche darsi. Se proprio oggi dovessi postulare ‘per i capelli’ qualcosa, direi una roba deludente tipo che la letteratura per me è uno sguardo, anzi più che uno sguardo quasi un’occhiata distratta sull’orizzonte del narratore, un racconto appunto senza alcun progetto e nemmeno messo in moto da chissà quale intenzionalità.

La mediazione dell’io che batte. Le lettere. Sulla tastiera. Non magistero della parola, ma trattativa, più che intrattenimento, da marchettaro con la lingua, inteso come caccia all’utile espressivo più immediato – forse per questo si dice “nell’economia del testo … etc., etc.”. Questa mediazione ha qualche rilevanza in quanto quell’io si è formato su altre letture. Da cui perverrei alla banalità che la funzione della letteratura è tutta nell’essere letta. Questa mediazione è degna di attenzione se l’io che la conduce mostra i crismi della genialità. E avendo sostenuto la distrazione dello sguardo, per genialità intendo il culo di ritrovarsi a guardare le cose (per raccontarle) da un punto di vista inedito. Il culo, perché ogni bravo proposito nella scelta dell’osservatorio mi risulta essere fallimentare. Questa la ragione, secondo me, per cui durante tutto il 2010 son stato lì a dire che la massima espressione letteraria dell’anno era Suttree che si muoveva sul suo “schifo” a pelo di melma e di detriti, da lì guardando la vita mentre accadeva sulle rive del fiume. Un movimento più geniale di ogni altro movimento di macchina, steadicam o dolly che sia. Un debito contratto con la cinematografia degli albori, quando i primi macchinicchi manovellati venivano sistemati su un battello della Senna o su un trenino, e via andare, il vedutismo, ma col valore aggiunto della grande tradizione letteraria americana palpitante e scalciante per sgorgare via dalla penna del McCarthy.

Alla fine mi è sembrato che la verità della letteratura sia la primigenia botta di culo nella genesi dei libri che sono poi stati in grado di scavallare i decenni e i secoli in virtù della loro preterintenzionale capacità di spoliazione dell’animo umano. Ovviamente diremo RAUS! ai libri scritti col culo degli altri (quelli più premeditati e al fondo cinici e disonesti nonostante il grande fascino dell’autore seduttore e cretino), ma questa è un’altra storia.

Ad ogni buon conto, ringrazio la lettrice Anna V. per la cortesia che mi ha usato di raccogliere i quesiti che io ponevo e per la qualità delle sue risposte. Apprezzo particolarmente, e sento molto vicino a me, il relativismo da lei mostratoci circa “la verità di chi scrive accolta nella verità di chi legge”. Si scrive per poter dire “io” mentre si compie l’azione perfetta dello scrivere: io mi responsabilizzo con le parole di cui dispongo, pongo in essere un linguaggio e giuro che quelle parole non siano vane: pongo una relazione etica – l’unica possibile dentro questo universo - tra me che significo e significato. Adesso però, il tardoccone che scrive si aspetta anche un chiarimento sul diritto di scrivere ‘vongole’.

Ad ogni buon conto due: lo sguardo. È un filo di crepa che tradisce sempre l’autobiografia, anche quando l’autore le prova tutte per rimpicciolirsi e scomparire. Lo sa bene un critico letterario come Giuseppe Giglio, il quale non per caso colloca in esergo al suo libro, I piaceri della conversazione – Da Montaigne a Sciascia: appunti su un genere antico, queste parole di Sciascia: “Uno scrittore, quale che sia la forma o il genere in cui si esprime, non si confida e confessa sempre? Nella sua opera non c’è già ogni confidenza, ogni confessione? Ogni buon lettore non è in grado di estrarle e farne testimonianza?”.

Ora, per chi non fosse soddisfatto del gran quaquichigghio che effettivamente ho qui combinato, giocando presuntuosamente con concetti di cui potrei non essere all’altezza, il libro di Giuseppe Giglio, vincitore dell’ultima edizione del premio Cardarelli come migliore opera prima di critica letteraria, costituisce sicuramente il luogo ideale in cui cercare possibili risposte alle domande che ci siam fatti. Non che Giglio incaselli o trinci giudizi, come sopra ho paventato, anzi, rischiara, e di molto, le idee e senza assumere un tono oracolare. Le sue conversazioni - il concetto, la chiave, della conversazione - vengono ad essere un’intuizione di non poco momento per la critica letteraria: tanto la stesura di un dialogo all’interno di un testo letterario costringe l’autore a prendere ” in considerazione le diverse opinioni possibili”, procedendo “a sostituire dogmi e preghiere” (Borges), tanto la conversazione è “un sistema – che rifiuta ogni sistema – di leggere il mondo, di capirlo […]” (Sciascia). Credo che una siffatta impostazione rappresenti un inedito quanto encomiabile bagno di umiltà oltre che un metodo sempre auspicabile per la critica letteraria, un segnale di ritorno entusiastico alla lettura, lettura e riflessione e giudizio nei quali si è smesso una buona volta di spingere avanti i propri preconcetti, in una cornice di ritrovato rispetto per gli scrittori. Se sussistono queste condizioni allora si può negare che la letteratura sia un risultato esclusivo dell’autore, per affermare invece la Letteratura come intelligenza del critico con lo scrittore.

Per appagare quindi la curiosità su come si tiene insieme un discorso critico ambizioso locupletato delle voci di alcuni dei più ‘grandi’ scrittori della storia (Montaigne, Stendhal, Pirandello, Brancati, Savinio, Borges, Alvaro, Sciascia, Durrenmatt e altri ancora) non posso far altro che rimandare alla lettura delle loro conversazioni con Giuseppe Giglio:

letteraria

Proviamo a rispondere?

Ha o no, una sua funzione la letteratura? E se sì, quale funzione?

Parla o no, di verità, la letteratura? Ed eventualmente, di quale o quali verità?

Un libro deve rappresentare lo spirito del tempo o deve, al limite, riecheggiarlo?

Dove sta la qualità di un’opera letteraria: nel potere specchiante o nel mondo specchiato?

Si deve tendere all’identificazione tra l’opera scritta e la biografia dell’autore oppure sono due mondi completamente scissi? O ancora, esiste una terza via, un’altra possibile declinazione del rapporto tra libro e vita dello scrittore?

La scrittura che vita è? E la vita che scrittura è? “Mondo dei libri o libro del mondo”?

La sostanza è il plot o è lo svolgimento dei problemi dell’esistenza?

La forma si sceglie o si impone?

altri spot, le torsioni dell'anaconda

Io canto /5

E tanto più dolor, che punge a guaio […]

A tutti quelli che diranno che Hereafter, l’ultimo film di Clint Eastwood, è una cacata.

Intanto è un film che riesce a tenere insieme due cose: 1) la conferma dello schema eastwoodiano qui illustrato; dunque, chi lo ha apprezzato in passato non se ne sentirà tradito. 2) l’originalità. Perché facendo di testa sua, cioè fregandosene come ha sempre fatto, Clint parte da un soggetto incentrato sul ‘paranormale’ e va coraggiosamente a raccontare la sua storia fino in fondo, a interrogarsi su cosa c’è dopo la vita, a esplorare il dolore e la morte. Mettendo in scena la solitudine di un sensitivo capace di entrare in contatto coi morti, con gli strapassati – come dice n’amico mio - , gli riesce bene un controfagotto al pernacchio costante di certa rozzezza atea e materialista. E gli riesce pure con ragguardevole finezza psicologica, senza tessere le lodi di alcuna religione istituzionale. Da vedere e rivedere l’ultima seduta del medium col ragazzino Marcus: sembra un duello alla Sergio Leone, una resa dei conti dove le pistole sono state sostituite dai dolorosi interrogativi esistenziali, e il bello è che sono quasi risolti nel qui e ora.

Intesi ch’a così fatto tormento / enno dannati i peccator carnali, /che la ragion sommettono al talento./ E come li stornei ne portan l’ali / nel freddo tempo a schiera larga e piena, / così quel fiato li spiriti mali: di qua, di là, di giù, di su li mena; / nulla speranza li conforta mai, / non che di posa, ma di minor pena.