LE SCHEGGE (Einaudi, 740 pp.) è certo una lettura gratificante per chi segue da tempo Bret Easton Ellis. Non delude, anzi delizia il suo lettore storico, non fa che prendere la biografia dell’autore, letteraria e non, aprirla e dissezionarla per poi riassemblarne i “frammenti” anche con, forse soprattutto con, l’aggiunta di inserti magari estranei e scioccanti, magari bestiali - proprio come fa con le sue vittime il Pescatore a strascico, il serial killer convitato di pietra in tutto il romanzo. D’altra parte troviamo all’interno del libro la sua interpretazione autentica: “a me piaceva raccontare storie e abbellire un episodio altrimenti banale (…) ma non più di tanto, e così aggiungevo uno o due dettagli capaci di rendere la storia effettivamente interessante per l’ascoltatore dandole un che di umoristico o sorprendente o scioccante, e mi veniva naturale”.
Sicuro in The shards ci sono tutti i motivi di Meno di zero, di American Psycho, di Glamorama: la paranoia, lo stordimento con le droghe, le ossessioni, gli incubi, l’interscambiabilità dei ruoli giocati in società, le “pantomime che fanno percepire solo il bordo delle cose”, la bellezza dei corpi dei ragazzi e le efferatezze che su quei corpi si abbattono; ma è altrettanto sicuro che gli stessi motivi qui rifiutano la gratuità enigmatica tipica delle opere precedenti (e che non nego costituisse il loro principale elemento di fascinazione) per essere coerentemente sviluppati ed esaustivamente rappresentati in funzione di una storia nerissima di gelosia, sesso (“una fame basica di sesso che non era possibile né appagare né stoppare”, il desiderio scatenato, di “una ferocia impossibile da gestire”) e morte che fila via compatta sorretta da un magnetismo che fa divorare le pagine.
Ecco allora che questo lettore storico (io lo sono, senza nessun altro merito che averlo letto, beninteso) resta irretito in questa esperienza di rivisitazione di tutto. E non c’è dubbio che il libro abbia tutto per sedurre anche un lettore che di Ellis non abbia dimestichezza. A partire dalla ineccepibile restituzione dell’atmosfera ‘80, la sensazione  così diffusa all’epoca che non ci fosse niente nella vita che avesse un significato salvo la superficie delle cose, la musica di quegli anni spesso commento della sperimentazione continua del vuoto esistenziale, ma anche “gli infiniti piccoli drammi a proposito del nulla”, i capi alla moda su “manichini che fingono di essere umani” che al momento di essere fotografati “nessuno si mise in posa sul serio – perché stiamo già posando”, gli stili di vita “così disponibili riguardo a ogni possibilità”.
A ben guardare, quanto appena elencato vige tuttora, e sono passati quarant’anni, solo più soffocato dal puritanesimo imperante. Così che nel bene e nel male gli eighthies sono un decennio molto più avanti di questi anni 20. Si veda, infatti, come risolve Ellis, da quel buon vecchio enfant terrible che è, narrativamente ed esponendo solo sé stesso, tutta la questione del Me Too, della cancel culture, del politically correct, dell’inclusività linguistica, raccontando di come vanno a finire le lusinghe di un produttore cinematografico nei confronti del Bret scrittore che ha una storia da piazzare: “Sì, tecnicamente ero minorenne, ma nessuno mi aveva fatto del male, non ero stato aggredito, avevo lasciato che accadesse (…) e davvero non provavo nulla né in un senso né nell’altro riguardo a ciò che era avvenuto nella camera da letto del bungalow quella domenica di ottobre. Semplicemente speravo che mi avrebbe condotto a un ingaggio come sceneggiatore, ma c’era la possibilità che ciò non avvenisse: che l’offerta fosse stata effimera, uno scherzo, uno stratagemma che permettesse a lui di assaggiare il mio cazzo”. O ancora: “Non fare il frocetto” dice più d’una volta Bret a se stesso.
Ma non solo questo. Le notazioni di costume nel brano che segue sono sovrapponibilissime alla nostra epoca, mutando quel poco che c’è da mutare:
“Noi ragazzi iniziavamo la giornata dandoci appuntamento per pranzo da qualche parte a mezzogiorno - uno dei posti che preferivamo era il Yesterdays, dove servivano il sandwich Monte Cristo, oppure prendevamo l’ascensore che dal piano stradale scendeva al Good Earth, un ristorante salutista costoso e alla moda dove bevevamo giganteschi bicchieri di tè ghiacciato alla cannella e mangiavamo insalate, o ci ammassavamo in uno dei séparé rossi dell’Hamburger Hamlet per un toast al polpettone dopo ave comprato i biglietti per il successivo film al Bruin (…) e facevamo occasionali puntate alla sala giochi Westworld dove ci sfidavamo a Space Invaders e Pac-Man o gironzolavamo per Postermat ascoltando dischi di band femminili anni Sessanta o andavamo a caccia di musica nuova da Tower Records o da Wherehouse oppure sfogliavamo tascabili in una delle tante librerie disseminate lungo le strade. La serata finiva da Ships, un caffè rétro sul Wilshire, ai margini del Westwood Village, col tetto a forma di boomerang e l’insegna al neon in stile età atomica, dove ordinavamo Coca-Cola e milkshake alla vaniglia e fumavamo sigarette ai chiodi di garofano, un posacenere e un tostapane su ogni tavolo, e ci fermavamo fin dopo mezzanotte. Sperimentavamo con la nuova libertà che si era spalancata di fronte a noi, attivando qualcosa all’interno del nostro gruppo ora che volevamo diventare in fretta adulti e lasciarci alle spalle quello che ormai ci appariva come il soffocante mondo dell’infanzia. Time for mi to fly …”
È un giacimento questo libro.
BEE fa l’esame istologico ai propri sentimenti. Vi procede davvero col vetrino della scrittura, forse mai così completa, alla quale, in comune col minimalismo, resta solo l’attenzione per il dettaglio minimo, pulviscolare, ma che qui però manifesta una sontuosa prodigalità nell’attribuzione delle intenzioni, nelle descrizioni delle psicologie, della cornice losangelina, delle scene d’azione. Insomma non più quello stile scarno e intorpidito ma la rievocazione analitica e ricca di interpretazioni di quel tempo scarno e intorpidito in cui lui e i suoi ragazzi ricercavano con fermo proposito la freddezza, l’anestesia, l’estetica dell’insensibilità, e di come al tempo il lui scrittore (questa volta senza i suoi ragazzi) cercasse di far corrispondere a tali vite, allora come oggi oggetto della narrazione, uno stile privo di orpelli, raffreddato, anzi ghiacciato. E la rievocazione, avviata per riempire le lacune e chiarire le elusioni “perché so che cosa accadde alla fine: conosco la trama segreta”, si volge in tutt’altro che nell’insensibilità, popolandosi invece di venature ed esiti finanche melodrammatici (“ero pronto ad andarmene perché avevo bisogno di guidare per la città e ascoltare musica triste e fumare sigarette pensando a Ryan”), e infine atrocemente melodrammatici.
Su tutto l’abilità di BEE che pur adottando il punto di vista di uno che racconta al passato e a quarant’anni di distanza, e dunque sa come la storia andrà a finire, tanto che spesso anticipa che quella tale situazione non si verificherà mai più nello stesso modo, si dispone a rivivere in maniera così intensa quel 1981 in cui aveva 17 anni da riappropriarsi delle allucinazioni di allora, sperimentandole di nuovo nel presente così da rendersi un narratore totalmente inaffidabile e ambiguo, e come tale favorisce l’effetto sorpresa, anche su se stesso, del susseguirsi degli eventi.
È un romanzo che va al setaccio di fondamenti di realtà da opporre a quella costante sensazione di irrealtà che attanaglia e aliena i protagonisti dei libri precedenti e di questo. Solo che nei precedenti, i personaggi non se ne fregavano, accettavano l’irrealtà come dato di natura. Qui invece, e questa è la differenza, Bret ci prova, è più umano. La bellezza però è che le ambiguità restano tutte. Bret Easton Ellis non smette di sedurre.
La traduzione di Giuseppe Culicchia mi pare sia un capolavoro nel capolavoro. Anche chi non mastica l’inglese si accorge di come scorre liscia, senza inciampi o forzature, una lingua chiara, precisa ed efficace anche quando è alle prese con la descrizione del lato oscuro, irrazionale e caotico dell’animo umano.