RACCONTI A VITA BASSA, Nicola Sacco

QUARUP Editrice, pagg. 160, tredici euro

Vittime del sistema, banalizzerebbero i sociologi conformisti. O magari gente di frontiera, azzerderebbero quelli che credono di avere il colpo d’ala. Ad un autore come Nicola Sacco il luogo comune è precluso. Esistenze sbagliate, moche e mancanti, bambini a cui viene negata la possibilità d essere figli, madri spaesate dall’essere madri, che appaiono e scompaiono in cerca più di se stesse che dei figli, crescite malate e vite adulte storte perché c’è sempre qualcosa di anomalo, di sbagliato: una calvizie troppo precoce, un braccio paralizzato, un matrimonio mncato, un fratello perso, il sesso problematico ansioso perverso violento.                                                                                                                                            E poi un conducente-domatore di autobus abbandonato da tutti tranne che dal suo “destriero”, una zia megera e bigotta alle prese con la giovane Olga (nipote “euforica e tragica”), un mago raggelante come può esserlo soltanto chi ha “la vocazione”.

Sono variazioni sull’assenza, di chi o ciò che manca, le voci in cui si artcola la lingua personalissima e mai cliché di questi racconti ambientati negli scenari struggenti di una Puglia moderna e ancestrale

Vite vissute con ossessione, dalla cintola in giù, secondo una legge di natura violenta e profondissimamente umana.

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LE RECENSIONI:

UN MONDO PIENO DI RABBIA E DI SOLITUDINI

In tempi come i nostri - di raggelante conformismo e di spaventosa omologazione, di generale impoverimento espressivo e e di involgarimento dei linguaggi -, non è difficile incappare in libri edificanti, celebrativi, da salotto televisivo. Certi altri libri, al contrario, arrivano al lettore con grande difficoltà, e specialmente se contengono storie che fanno male: libri inaspettati e difficili, di demistificatrice attitudine, dalla dirompente carica espressionistica e visionaria, magari pullulanti di voci e ossessioni che animano amarissime e devastanti metafore dell’assenza, di chi o di ciò che avrebbe dovuto esserci, di chi o di ciò che si è perduto, che viene negato. Racconti a vita bassa, della neonata editrice Quarup, è uno di questi libri, nato dalla penna inquieta dell’esordiente Nicola Sacco. Un retablo intriso di colori dalle tonalità forti (a partire dal filo spinato della copertina, corroso dal tempo: un primo piano di percussivo richiamo), distesi attraverso una scrittura magmatica e barocca, ove brulicano alchimie sintattiche, fermentazioni lessicali ed eccitazioni prosodiche, a dar visibilità a malinconie, ossessioni, oscenità. Un polittico che affonda le radici in una Puglia (che Sacco ha nelle viscere) contemporanea e ancestrale al tempo stesso, in cui si resta “abbacinati dalla luce improvvisa e violenta” che “fa rimpicciolire gli occhi”, o si è prigionieri di un’afa spietata, in una “terra bruciata” da un’atavica e irrisolta siccità (per cui si arriva anche a pregare una “madonna delle autobotti”), da un sole implacato (”plasma che sgronda, fuoco che scioglie in sangue”) che riarde le stoppie delle desolate periferie di Bari, e scioglie l’asfalto di Marcianelle e dintorni, dove una “strada di edifici fatiscenti e lerci è soffocata dagli odori del carburante del caldo umido di giugno, delle scarcioffecoibisi della terra non scrollata dei vestiti dei senegalesi”. E qui l’autore dà voce alla rabbia (che ampiamente pervade questa scrittura), al rancore, al dolore, al lutto, alla gioia pazza, al sesso frenetico squallido e perverso, al sesso rigenerante ed esaltante, all’impotenza, al sordido… Per confrontarsi con il male, con la disperazione; e dipingere così un guazzabuglio inestricabile entro cui il lettore è costretto a volare basso, accanto a protagonisti di esistenze sbagliate, difficili, monche, spesso avvelenate da bassezze o cattiverie gratuite. Personaggi irredenti (banalmente etichettati, da certi sociologi, quali vittime del sistema), vividissimi e iperbolici, con tratti di bestialità; personaggi che avvertono tutto il peso della solitudine, e che animano un romanzo a più voci allestito con una partitura teatrale. Apre un prologo, in cui si rapprendono e cristallizzano lo scenario dell’azione e alcuni degli attori (Dàniel, Michelino, Giada; bambini cui viene negata la possibilità di essere figli, o che vivono in un condotto fognario e chiedono l’elemosina, o che finiscono per soccombere in giochi infantili di allucinata crudeltà). Seguono vari episodi, ove si vanno incastonando le vicende di altri attori. Come quelle di Ninì Ingannamorte, stralunato conducente di un autobus-destriero (che egli maniacalmente cura, “slavandina tantissimo”, e insieme al quale definisce “Un grumo di dolore a quattro ruote che viaggiava su e giù, avanti e indietro, per strade provinciali”), di un “carrozzone paleotramviario” che scivola fino al capolinea di Marcianelle, fino alla “violenza della fine della storia”, cioè a quella terra bruciata che ancora “incuba mine” (antiuomo), e dove, per gioco, “la mano di un bambino colpisce duramente il corpo di un altro che tenta di scappargli via”.
Ninì incassa sconfitte brucianti dalla vita: proprio mentre il cancro gli strappa Beppuzzo (il giovanissimo fratello), guerreggia con la moglie Rosaria sulle macerie del loro rapporto, che quel terribile male aveva nettato di una misera crosta piccoloborghese, per mettere a nudo una squallida vicenda di sesso perverso in cui Rosaria (delusa dall’assenza di Ninì) era stata ridotta a mero corpo-oggetto; come il fantoccio, a grandezza naturale, cui Ninì farà ricorso dopo la fuga di Rosaria… una tenue filigrana di brevi frammenti unisce gli episodi, sulle note di un mesto controcanto incentrato sul personaggio di Gerardina, una matura zitellona, “scafata bracciante della luce perpetua”, megera e bigotta, abbandonata alla vigilia delle nozze, destinata a soccombere alla frustrazione. Fino all’epilogo (divertita rivisitazione del Riccardo III): dove Riccardo della Rosa Bianca, un boss malavitoso dalla fama di mago-esorcista raggelante, ripercorre le orme dell’eroe negativo di Shakespeare (compresa la seduzione sadomasochistica di Lady Anna, con il suo miscuglio di carisma e terrore), in preda a un farneticante e barocco delirio.
E’ una scrittura vitalissima, quella di Nicola Sacco. E coraggiosa: nel segno di un’ideologia che si esplicita nel linguaggio, e che si abbandona al primato del giudizio conoscitivo e morale della letteratura. E, per certi versi, della letteratura del “negativo”: ove Gadda ha tentato di sbrogliare l’infinito “gnommero” dell’esistere, mentre Céline “balla su un deserto di rovine e di morte” (Carlo Bo). Un deserto i cui petrosi sentieri prova a ripercorrere anche Sacco; nel tentativo di lanciare - con queste sue oltranze espressive, più volte affidato ad un parlato irriverente e straripante - un’ardua scommessa: che un’affilata lama linguistica possa penetrare a fondo una geografia umana spesso ignorata, che una lussuria di parole (dalle contorte radici, impastate di vita e dissacratorie: di ipocrisie imperanti, di falsi miti, persino di personaggi religiosi, come la “Madonna sul dente guasto”) possa sedurre verità nascoste, e tentare di restituire il senso esatto dell’azione degli uomini. Che sempre più si affannanno ad animare una commedia di demenza e dolore.