Archivi per il mese di Febbraio, 2010

diario di un giullare timido

oggi si posta così, fuoco e luce e vento

diario di un giullare timido

dal tabernacolo un sibilo

i giorni tengono dietro ai giorni. l’attesa è un pantano in cui, a più a più, affondano i miei zoccoloni. lo scrittore è un acuto analista di come e qualmente sia belva egli stesso, idolo spaventevole che si sottrae a ogni teorizzazione: egli, come il popolo, procede noncurante, “forza della natura che si divora da se stessa”. s’inizia sempre credendo di essere agli altri ed a se stesso faro, sicuri di poter stanare la bestia totemica in nome della quale si sacrificano vite. si finisce invece ciechi e irresistibili, manichini autoreggenti mantenuti verticali da una continua corrente verticale, sbisciolante, scaturigine inesausta di una brace che arde da tempo immemore, alimentata da chissà cosa che affonda nella leggenda. l’ostinazione a vivere dell’umano bestiame ci informa e non mi scevera. seguita a non vedermi la sconcia italia mentre assevera i miei postulati.

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la sprotezione civile

ahi, la sconcia italia che mi costerna. e non mi vede.
la borghesia diffusa che ha soppiantato il quarto stato non inalbera vessilli di vendetta per i ventri incavati, lo sfruttamento secolare e l’atavica fame. sul proprio stendardo ci stan delle mutande e le teste spiccherebbe a chi del potere ha fatto una questione di vizio del quale ella non partecipa. non più pane, pane! romba il tumulto ma fica, fica! solo che il grido è come represso e le resta nella strozza perché la borghesia diffusa dacchè è tale, spesso piccola e pudibonda, da quel greve mottetto è come imbarazzata, per cui trova più confortevole riparo nel moralismo. da tempo pencola tra il definitivo benessere e la miseria più sozza, troppo occupata a mantenersi in equilibrio su cotanto scrimolo, precludendosi in tal modo sia il sollazzo e le bonazze da oligarchi che il sudiciume dell’accoppiamento selvaggio degli uomini ridotti come animali.

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la questione delle brioscine

Il percorso è quello coperto normalmente dalle calabrolucane. Si sfreccia lungo uno stradone che sprigiona svincoli per la circonvallazione. Le tangenziali la menano schizoidi e le puoi vedere tra riflessi di arancio stinto avviticchiarsi sopra e sotto la nostra carreggiata. A viaggiare su degli spasmi. Scivolare tra gorghi. Oddio, la nostra pista è abbastanza regolare ma le strade slinguano sudicie torno a torno, sorvegliate da interminabili serie dinoccolate di fari dalla luce sbiadita, la nostra invece è buia perché dopo un po’ si tuffa nella campagna.

Evitiamo accuratamente di segnarci allorché appare per qualche attimo il santuario della madonna dei cunicoli per essere pronti a reggere lo stomaco quando il tracciato si produrrà in una brusca depressione. L’auto è ad alta velocità. Andare così non si può, per esempio sul tratto autostradale tra Candela e Venosa, dove sempre fracassa la furia degli elementi. Nessuno mi chiede di rallentare e io d’altronde in questo punto non l’ho mai fatto. Dovrei però, così magari la millefoglie di peperoni se ne resta al proprio posto: a ranghi compatti con i beveraggi alcolici, e che l’apparato digerente li voglia benedire. Poi comincia l’ascesa che si lascia alle spalle questa specie di sottovia e pian piano si scopre quel monumentale latrinone issatosi nel bel mezzo della campagna a vigne, uliveti e mandorleti a perdita d’occhio. È lo stadio sannicola, che si ingigantisce a poco a poco sul parabrezza e scopre il suo culo polveroso come un puttanone astronautico. Sesquipedale, la battona laterizia. Enorme. Nella sua panza può contenere sessantamila teste. È il catino che ammattona i nostri vent’anni e gli altri venti di chi rincoglionisce con i caratteri runici dello stampo italiano da spalto. Io, come sempre e per pigrizia (per non dover raggiungere una rotatoria e starvi a girare intorno) opero in quel punto una manovra decisamente pericolosa: a destra c’è l’ingresso numero nove della curva nord, a sinistra il senso contrario di marcia; ebbene, superato il dosso che conclude la rampa e comprime la tua duodenale angoscia nelle tube incaricate del lavoro sporco, guardo nel retrovisore per accertarmi che nessuno sopraggiunga e mi impadronisco della corsia di sorpasso. Rallento… inchiodo quasi, lascio che la mia tipo millessei sbatta bene le terga e completo un’inversione di marcia degna del peggio avanzo di galera.

altri spot, letteraria

Il gioco dell’odore

Di pioggia ne era caduta poca e insieme a lei di sabbia ne era caduta invece assai. Questa volta però la conca non si era riempita indi per cui i ragazzetti erano tornati a giocarci dentro. Quel po’ d’acqua che era sgocciolata dal cielo aveva praticamente creato e compattamente steso una patina fangosa su quasi ogni cosa e perciò si poteva star sicuri che le polveri, e i mangimi già sparsi prima, almeno per un po’ non si sarebbero alzati. Oltre quella depressione del terreno, oltre il punto in cui si erano stanziati i bambini coi loro giochi, c’era solo terra bruciata, rottami di ferro, carcasse di automobili e di elettrodomestici assortiti. E nella terra bruciata, si diceva ci fossero le mine. Era terra bruciata. Uno sgangherato cartello segnaletico, posto proprio sul limitare di quella zona, recava esattamente quella scritta: TERRA BRUCIATA. Countinua a leggere »

le torsioni dell'anaconda

diavoli degli albori angeli dell’eterologa

sentendomi tubercolotico come una ormai esangue, clorotica badilante del Voreux esorcizzo i miei timori allunandomi con Méliès. se il polmone s’ingromma e la nerezza d’inchiostro t’impiomba nella depressione niente risolleva meglio del bagliore magico nel buio amniotico d’un cinematografo, e l’ingagliardir di lanternismi che da principio questo si fu.

per chi non capisce aggiungo solo che siamo dalle parti dell’anaconda ovvero delle metafore sulla germinazione, di Zola e di Vita Maria. come dire o affermare la possibilità di fecondazioni postume.

siamo a fine ottocento, compris? siamo nell’obice del 2010 che si infila come un dito nell’occhio della penultima fin de siècle. siamo al vero, mortale testacoda intersecolare.

non nel 2012 MAIS, ET POUR CAUSE:

APOCALYPSE  NOW!

e la sconcia italia che mi costerna e non mi vede

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rinsaccato nel mio amore

sia lode e brodo, e magari anche semolino, a me.

perdona, o lettore, ’sti scaracchi e se il blog ne annerisce.

la miglior vendetta

superior stabat samoiedo

che mentre di sopra ha corso le duel au pistolet eglicane avrebbe tutto il tempo di dare una guardata dal pianerettolo nella tromba delle scale e accorgersi che di sotto corre ormai tartarica voragine. se riuscisse a immaginare che buttandosi o venendovi scaraventato probabilmente impiegherebbe diciannove giorni a toccare il fondo vomiterebbe subito sullo zerbino all’ingresso tutta la pleplea attinta all’antiquo celenteron.

la miglior vendetta

attaccati alla sacca - la difesa del Sacco

la pappetta è raccolta nell’antico celenteron e il cane mangia con gusto lappando nel magno sintagma umanide dove la testa è ano scolatoio. sul mobile basso un libro di céline. è il sacrosanto ambaradan della storia, della fine di una storia, della fine della storia, della violenza della fine della storia. adesso si decide chi dovrà provvedere alla manutenzione del candido pelo in insufflato manto, Chi sventerà le sue leishmaniosi. il sacrosanto ambaradan è solo una sofisticata crasi del più che banale caricaturale sangue e merda, più che perfetta categoria dell’iperbole umana. e prima che la coppia scoppi arrivando a disputarsi quarti di cane, eglicane prova a suggerir loro codici civili indirizzandosi verso la ciotola della più pura acqua. la lingua sbatte nell’acqua senza una vera sete da soddisfare. poi eglicane smette e drizza le orecchie agli insulti dei padroni, alle minacce, al calor bianco, agli assalti di varia natura, alle promesse di devastazione.

celenteron si calcificò allo scroto di céline. e al mondo la sacca dello scrittor. come fesso carapace.

diario di un giullare timido

CIRCUS

AFFONDINO, SIORI, AFFONDINO LE MANI IN QUESTA PLEPLE’!