Di pioggia ne era caduta poca e insieme a lei di sabbia ne era caduta invece assai. Questa volta però la conca non si era riempita indi per cui i ragazzetti erano tornati a giocarci dentro. Quel po’ d’acqua che era sgocciolata dal cielo aveva praticamente creato e compattamente steso una patina fangosa su quasi ogni cosa e perciò si poteva star sicuri che le polveri, e i mangimi già sparsi prima, almeno per un po’ non si sarebbero alzati. Oltre quella depressione del terreno, oltre il punto in cui si erano stanziati i bambini coi loro giochi, c’era solo terra bruciata, rottami di ferro, carcasse di automobili e di elettrodomestici assortiti. E nella terra bruciata, si diceva ci fossero le mine. Era terra bruciata. Uno sgangherato cartello segnaletico, posto proprio sul limitare di quella zona, recava esattamente quella scritta: TERRA BRUCIATA.

“Giada vieni qua che dobbiamo fare un gioco!”

Al richiamo, Giada planò pronta alla guerra di un gioco maschiaccio sul campo base dove a tutti gli piaceva di starsene sdraiati così sozzi e pieni di sivo.

“Che gioco?” domandò.

“Dobbiamo fare il gioco dell’odore” annunciò Tonino stagliandosi contro il brulicare straccione degli altri meschinelli insudiciati e inzaccherati. Ognuno di loro doveva dire che lavoro avrebbe voluto fare da grande e che odore doveva dare. Allora dissero: il pompiere che dà l’odore bruciato; la ballerina che dà l’odore del teatro; il giardiniere che dà l’odore dei fiori; la contadina che dà l’odore del terreno; il pescatore che dà l’odore puzza del pesce; il pastore che dà la puzza di stalla; il dottore che dà l’odore del mangiare degli ospedali e il fetore del colera da curare, eccetera eccetera.

Quello che disse “faccio il vinaio che dò il colore della vinaccia” era Sante.

“Oh, uagliò, questo sta già imbriacato!” Un bambinone calvo lo prese subito di mira pensando così di riuscire a far ridere tutti gli altri.

“Che c’entrano mò i colori? Sante come al solito tu non hai capito niente. Vattene che tu già lavori e già feti. Quindi non conti.”

Era Sante il ritardato e non aveva capito che i colori non valevano; però lui un odore ce l’aveva eccome. Ce l’aveva addosso. Puzzava del vino che si scolava ogni due per tre all’azienda vitivinicola dove andava al fatico. Per questo che fu subito schernito e scacciato.

“Il topino che dà l’odore di fogna” disse Dàniel cercando di calamitare l’attenzione di tutti. Il suo cranio pelato calzava un paio di occhiali da sole. Si abbassò sugli occhi quelle lenti nere a specchio. “Occhiali da pappone” gli dicevano per sfottere, anche se lui non capiva. E se per caso capiva che qualcuno voleva burlarsi di lui menava le mani. Pensò che a questo punto ci stesse bene tirare uno sputo per terra. E sputò cercando di imprimere una gittata più tesa possibile.

“Il topino?” disse Tonino.

“Eh, il topino” fece Dàniel.

“Ma il topino è il ladro” obiettò Isabella alzandosi sulle punte. Non faceva altro che provare movimenti di danza classica. Ma solo con le gambe. Ne teneva ferma una e strisciava l’altra di lato. Richiudeva, incrociava, la rialzava improvvisamente. Perennemente in bilico.

“Embè?”

“Il ladro non vuol dire lavorare…”

“Chi l’ha detto?”

“Tutti lo dicono.”

“Ma tutti chi? E poi proprio tu parli?”

“Perché non posso parlare io?”, protestò Isabella.

“No. La ballerina lo chiami lavorare?”

Isabella arrestò ogni movimento.

“Dàniel ma in che mondo vivi?” intervenne Giada. “Allora ci devi dire che c’entra il ladro con l’odore della fogna.”

“C’entra, c’entra” fece Dàniel con sufficienza presuntuosa.

“Mi sa che non c’entra proprio e che devi passare da sotto al tunnel della morte” replicò Giada.

“Da sotto al tunnel della morte ci deve passare tua nonna!” ringhiò Dàniel.

Quello che diceva l’odore più loffo, cioè il mestiere o l’attività che non dava odore o che esprimeva un odore appena percettibile, pagava pegno e perciò passava da sotto al tunnel della morte. Il tunnel della morte era uno dei pegni più efferati che si potesse decidere di far pagare.

“Il capo sotto al tunnel della morte? Ma stai a parlare o a muovere le recchie?” la canzonò Dàniel. “Tu, piuttosto, non hai ancora detto cosa vuoi fare. Avanti, parla.”

Fu il turno di Giada.

“Io la pastaia.”

“La pastaia? E che odore dà la pastaia?”

“L’odore del sudore” li informò Giada. “Fai la pasta SIMPERLA che la metti nel piatto e si bagna di sudore.”

I bambini dapprima restarono interdetti, poi ci fu un fragoroso scoppio di risate. Il ridere sguaiato, capeggiato da Dàniel, scemò in ridarella sadica e questa poi si mutò in un sinistro crocchiare di dita.

Maledetti, pensò Giada. Quelli stavano pregustando i cazzotti che di lì a poco le avrebbero riversato sulla schiena, il tempo di schierarsi in fila, uno dietro l’altro con le gambe divaricate. Era in questo modo che si formava il tunnel della morte. Lei doveva attraversarlo procedendo carponi, sopportando il dolore dei colpi sferrati sulla groppa e sulla nuca.

Fu proprio dura. Giada era una bimba grassoccia e coi baffi, poi era bionda. Però, dài, era carina! Ai bambini stava invece proprio antipatica, per cui erano contenti che fosse toccato a lei di pagare pegno. E per questo vi si accanirono tanto. Mentre lei non era ancora a metà e già disperava di uscire da quel maledetto tunnel, il dolore la stava schiantando. Ogni colpo in più le sottraeva energia preziosa per andare avanti e uscire dalla gragnuola.

Ma che bastardello che doveva essere quello che aveva deciso di fare ’sto gioco schifoso oggi. E quanto beoti dovevano essere i suoi coetanei che non arrivavano a sentire l’odore del sudore della pasta SIMPERLA.

Adesso le mani di Giada affondavano nel fango e ne uscivano sempre più a fatica. Pum! Pum! rimbombavano frattanto le percosse sul suo corpicino e dentro di lei. Pensò che ce la doveva fare perché nessuno era mai morto nel tunnel della morte anche se quelli che ci passavano tornavano poi a casa pieni di ammaccature e casseruole di collera da smaltire. Ma allora perché a lei stanno usando tutta questa veemenza? Hai voglia di raddoppiare e triplicare lo sforzo mò. Pum! Pum! Non ce la faccio, non ce la faccio.

Cominciò a piangere. Il fiatone era aumentato. Ogni centimetro di avanzamento era un pezzetto di polmone lasciato in quello che ormai era un vero e proprio pantano. Le braccine cedevano sotto le mazzate.

Giada era arrivata sotto le gambe di Dàniel, un bambino che portava sempre occhiali da sole dalle lenti così strette che gli occhioni cattivi gli strabordavano al di sopra e al di sotto di queste lenti. Doveva trovare un modo per addormentare il dolore. Pum! Pum!

Ideona!

È l’odore che contrasta il dolore.

Giada si mise a sentire gli odori. L’odore di chi non ti ha capito. L’odore del sudore della pasta SIMPERLA, vabbè, quello è scontato. L’odore che ha l’aria quando esci dal tunnel. L’odore che ti stringe la gola quando che dallo spiazzo più alto del paese scorgi sulla via del mare il fungo della torre di TELEAMMORBA. L’odore di quanto puzzano i bambini cattivi. L’odore del deserto africano e la puzza delle sue carcasse tutto condensato nel fango che t’incrosta faccia e capelli. L’odore che emani quando sei sola e tutta concentrata su te stessa per superare la sofferenza. E l’esalazione di quando vedi la luce in fondo al tunnel. O quell’altra esalazione. Di quando si spegne la luce e diventa tutto buio.

Quando Giada entrò nel tunnel nessuno si ricorda che odore avesse ma indossava un top carta da zucchero ricamato a piccoli fiori, una gonna di tulle plissettato rosa fragola e i sabot estivi verdolini. Con quegli stessi colori addosso uscì dal tunnel, ma era diventata un’altra cosa. Non era più una bambina perché si era trasformata. Era diventata un diffusore di essenze in porcellana di Limoges.

I bambini la raccolsero e, tenendola tra le mani, composero una processione serpeggiante per quella manciata di casupole sparse nella sabbia, spingendosi oltre l’imponente edificio della scuola, ma ben attenti a non finire oltre la terra bruciata, dove si diceva ci fossero le mine, per andare a deporla in una nicchia in muratura che sapevano loro.

Se un giorno, attraversando una terra assolata e polverosa, nonostante la puzza acida di letame, coglierai un profumo inesprimibile con scia di bel tempo e sentori di tabernacolo, tra sparuti tacchini che arrancano in asfissia, vigne, uliveti e terrazzamenti a capperi, ricordati: questo profumo ha una precisa fonte emanatrice, e questa una esatta allocazione.

nicola sacco
racconti a vita bassa