Ho rimeditato a lungo lo scioglimento dei dilemmi posti nell’articolo precedente, giungendo alla conclusione che se avessi azzardato delle risposte avrei finito per incasellare temi e trinciare giudizi ai quali avrei potuto anche impiccarmi. Inoltre mi sembrava di tornare su argomenti da me già fritti precedentemente a proposito dell’irriverenza verso verità precostituite e della necessità di mettere in discussione anche quanto si crede di aver guadagnato alle proprie certezze. Temevo di ripetermi e annoiare, insomma. Incasellare è un po’ morire e non è un caso che abbia accusato un impeto di inaridimento, un blocco che finora non avevo mai sperimentato proprio laddove cercavo di fare giù un discorso organico. Decidevo, pertanto, che ero uno incapace a statuire alcunché.

Dice: “allora te scrivi e scrivi ma non hai un progetto sulla lingua”. Bon, a parte che sulla lingua affettivamente non avrei un progetto ma una carta geografica, quella sì … Bon, potrebbe anche darsi. Se proprio oggi dovessi postulare ‘per i capelli’ qualcosa, direi una roba deludente tipo che la letteratura per me è uno sguardo, anzi più che uno sguardo quasi un’occhiata distratta sull’orizzonte del narratore, un racconto appunto senza alcun progetto e nemmeno messo in moto da chissà quale intenzionalità.

La mediazione dell’io che batte. Le lettere. Sulla tastiera. Non magistero della parola, ma trattativa, più che intrattenimento, da marchettaro con la lingua, inteso come caccia all’utile espressivo più immediato – forse per questo si dice “nell’economia del testo … etc., etc.”. Questa mediazione ha qualche rilevanza in quanto quell’io si è formato su altre letture. Da cui perverrei alla banalità che la funzione della letteratura è tutta nell’essere letta. Questa mediazione è degna di attenzione se l’io che la conduce mostra i crismi della genialità. E avendo sostenuto la distrazione dello sguardo, per genialità intendo il culo di ritrovarsi a guardare le cose (per raccontarle) da un punto di vista inedito. Il culo, perché ogni bravo proposito nella scelta dell’osservatorio mi risulta essere fallimentare. Questa la ragione, secondo me, per cui durante tutto il 2010 son stato lì a dire che la massima espressione letteraria dell’anno era Suttree che si muoveva sul suo “schifo” a pelo di melma e di detriti, da lì guardando la vita mentre accadeva sulle rive del fiume. Un movimento più geniale di ogni altro movimento di macchina, steadicam o dolly che sia. Un debito contratto con la cinematografia degli albori, quando i primi macchinicchi manovellati venivano sistemati su un battello della Senna o su un trenino, e via andare, il vedutismo, ma col valore aggiunto della grande tradizione letteraria americana palpitante e scalciante per sgorgare via dalla penna del McCarthy.

Alla fine mi è sembrato che la verità della letteratura sia la primigenia botta di culo nella genesi dei libri che sono poi stati in grado di scavallare i decenni e i secoli in virtù della loro preterintenzionale capacità di spoliazione dell’animo umano. Ovviamente diremo RAUS! ai libri scritti col culo degli altri (quelli più premeditati e al fondo cinici e disonesti nonostante il grande fascino dell’autore seduttore e cretino), ma questa è un’altra storia.

Ad ogni buon conto, ringrazio la lettrice Anna V. per la cortesia che mi ha usato di raccogliere i quesiti che io ponevo e per la qualità delle sue risposte. Apprezzo particolarmente, e sento molto vicino a me, il relativismo da lei mostratoci circa “la verità di chi scrive accolta nella verità di chi legge”. Si scrive per poter dire “io” mentre si compie l’azione perfetta dello scrivere: io mi responsabilizzo con le parole di cui dispongo, pongo in essere un linguaggio e giuro che quelle parole non siano vane: pongo una relazione etica – l’unica possibile dentro questo universo - tra me che significo e significato. Adesso però, il tardoccone che scrive si aspetta anche un chiarimento sul diritto di scrivere ‘vongole’.

Ad ogni buon conto due: lo sguardo. È un filo di crepa che tradisce sempre l’autobiografia, anche quando l’autore le prova tutte per rimpicciolirsi e scomparire. Lo sa bene un critico letterario come Giuseppe Giglio, il quale non per caso colloca in esergo al suo libro, I piaceri della conversazione – Da Montaigne a Sciascia: appunti su un genere antico, queste parole di Sciascia: “Uno scrittore, quale che sia la forma o il genere in cui si esprime, non si confida e confessa sempre? Nella sua opera non c’è già ogni confidenza, ogni confessione? Ogni buon lettore non è in grado di estrarle e farne testimonianza?”.

Ora, per chi non fosse soddisfatto del gran quaquichigghio che effettivamente ho qui combinato, giocando presuntuosamente con concetti di cui potrei non essere all’altezza, il libro di Giuseppe Giglio, vincitore dell’ultima edizione del premio Cardarelli come migliore opera prima di critica letteraria, costituisce sicuramente il luogo ideale in cui cercare possibili risposte alle domande che ci siam fatti. Non che Giglio incaselli o trinci giudizi, come sopra ho paventato, anzi, rischiara, e di molto, le idee e senza assumere un tono oracolare. Le sue conversazioni - il concetto, la chiave, della conversazione - vengono ad essere un’intuizione di non poco momento per la critica letteraria: tanto la stesura di un dialogo all’interno di un testo letterario costringe l’autore a prendere ” in considerazione le diverse opinioni possibili”, procedendo “a sostituire dogmi e preghiere” (Borges), tanto la conversazione è “un sistema – che rifiuta ogni sistema – di leggere il mondo, di capirlo […]” (Sciascia). Credo che una siffatta impostazione rappresenti un inedito quanto encomiabile bagno di umiltà oltre che un metodo sempre auspicabile per la critica letteraria, un segnale di ritorno entusiastico alla lettura, lettura e riflessione e giudizio nei quali si è smesso una buona volta di spingere avanti i propri preconcetti, in una cornice di ritrovato rispetto per gli scrittori. Se sussistono queste condizioni allora si può negare che la letteratura sia un risultato esclusivo dell’autore, per affermare invece la Letteratura come intelligenza del critico con lo scrittore.

Per appagare quindi la curiosità su come si tiene insieme un discorso critico ambizioso locupletato delle voci di alcuni dei più ‘grandi’ scrittori della storia (Montaigne, Stendhal, Pirandello, Brancati, Savinio, Borges, Alvaro, Sciascia, Durrenmatt e altri ancora) non posso far altro che rimandare alla lettura delle loro conversazioni con Giuseppe Giglio: