Il giovane ciclista siciliano, sicuro campione del futuro, Vincenzo Nibali ha detto di Lance Armstrong qualcosa come voi non potete capire, per me era un mito prima che smettesse, è un mito adesso che ha ripreso, Lance Armstrong è Lance Armstrong … e Armstrong è Rocky.

È possibile. Solo che se fosse Rocky, se solo pensassi questo, oggi non ne parlerei bene. Se Armstrong non avesse spiegato in più occasioni che sono diverse le ragioni che possono ispirare un ritorno alle gare di bicicletta (non c’è solo la voglia di vincere), e che una di queste è la voglia di soffrire ancora, oggi non starei certo a rappresentarmelo come oggetto di stupore metafisico. Se non fosse tornato da ex, a trentotto anni suonati, non avrei, come invece mi sta succedendo, sentimenti di rispetto nei suoi confronti; nonostante la sua conquista di sette consecutivi Tour de France, non ne avrei. Allora lo odiavo. Ammazzava la Grande Boucle senza pietà, un anno dietro l’altro, e per questo non si faceva altro se non sperare che arrivasse in fretta alla fine della sua carriera, che l’età ne decretasse finalmente il tramonto. Come quando ci si consola col pensiero della vecchiaia di Berlusconi: l’inesorabile scorrere del tempo accompagnato da un inevitabile rincoglionimento ce lo accomoderanno fuori dalla scena politica e pertanto fuori dalle palle (hai visto mai?). Il tutto però dovendo fare i conti con un’angustia, con l’amarezza per il fatto che l’epoca che ha visto trionfare il campione non abbia saputo, al contempo, produrre alcuno in grado di batterlo.

Adesso lui torna. Ed è battuto. Nel senso che ci sono altri che tagliano la linea del traguardo prima di lui, dandogli pure bei minuti di distacco. E tuttavia neanche tanti, quei minuti. Allora di nuovo giù a spiegare che la partecipazione alla più affascinante corsa a tappe del pianeta ha, per lui, dei significati che esulano dall’eventualità, a questo punto del tutto esornativa, di mettere le proprie ruote davanti a quelle di tutti gli altri corridori. In altre parole, ci scodella tutta la sua risaputa vicenda in una chiave a mio avviso del tutto sottovalutata fin qui: LA PASSIONE. Passione per la bicicletta e per quel tanto di avventuroso che le corse in bici, soprattutto i grandi giri, si portano appresso. L’impossibilità di vivere senza andare in bici, senza la compagnia di una vita, quella del gruppo. E insisto col dire che questo della passione è un punto centrale per attribuire il giusto valore alle cose che succedono. Si parla qui di uno che ha scelto per mestiere, o anche per vocazione artistica, di andare in bici. E che per quanto ‘bombato’ possa essere (ma a questo punto la lista dei ‘drogati’ è sterminata e a farsene tiranneggiare non otterremmo altro che far cadere molti miti nella polvere, crollerebbero molte certezze con conseguente magari rivalutazione di brocchi inusitati, e allora sì che staremmo dentro un revisionismo opportunista della storia del ciclismo) è sempre uno che per decine d’anni non ha fatto altro che PEDALARE. Pedalare cioè faticare sui pedali, col culo su un sellino, piegati su un manubrio, per ore in un giorno, per mesi in un anno, per migliaia e migliaia di chilometri in una vita. E allora quando qualcuno liquida il ciclismo bollandolo come marcio, che cazzo fa? Contribuisce a un disdoro, un disprezzo sociale, non ingiustificato ma sicuramente esagerato. Come quando per settimane non si fa che parlare del Premio Strega, del vincitore annunciato, delle lobbies editoriali e culturali, delle spartizioni e dei mercanteggiamenti, e si finisce col dire che il Premio è marcio pure lui e vaffanculo. Va tutto bene, non abbassiamo mai la guardia, vigiliamo sempre, rendiamo tutto più limpido, figuriamoci. Ma ricordiamoci che qui si parla di libri. E che sarà mai! Come qui si parla di ciclisti. Non saranno mica questi i luoghi dove pronunciare tutte le nostre condanne, esaurendone i bonus, dove sfogare tutta la nostra frustrazione e il nostro biasimo? Non saranno mica questi i protagonisti di quanto di disdicevole e deplorevole e dannoso e pericoloso si va compiendo nel consorzio degli uomini?

Ma tornando ad Armstrong e questa sua ieraticità finalmente meritata: non Rocky, direi del sette volte vincitore del Tour, ma Clint Eastwood. E non per una facile associazione che improvviso or ora: Il texano dagli occhi di ghiaccio. Ma per la partitura perenne del cinema eastwoodiano: un ex che ha rinnegato il suo passato, un veterano in pensione, magari tormentato da più di un senso di colpa, viene richiamato per un incarico che solo lui, essendo uno specialista o un esperto, è in grado di svolgere. Più che un semplice incarico si tratta di una missione, di qualcosa che il protagonista è chiamato a realizzare per i profondi cambiamenti nelle esistenze e nel mondo di cui è partecipe, nel bene e nel male, dalla sua azione dipendono. Egli dapprima seccamente rifiuta, non può o non ne ha voglia, poi pian piano si ammorbidisce e, da refrattario che era, torna (a patto, però, che faccia a modo suo, che usi i suoi metodi, sbrigativi se del caso, Ispettore Callaghan se del caso), torna e si ritrova, per una ragione o per l’altra, coinvolto in prima persona, col cervello, col cuore, con tutte le sue conoscenze e la sua esperienza invischiato in una maledetta faccenda. Egli ha intravisto la possibilità di riscattarsi da un passato costellato di macchie, di alleviare una sua più intima pena, di espiare la colpa. E nel crepuscolo si manifesta in tutta la sua grandezza. Così come Clint, lui proprio, nel crepuscolo manifesta la sua grandezza autoriale. Ecco Armstrong, dunque, nel crepuscolo pure lui, come a volersi riscattare dalla colpa di aver vinto sette tours (che gli gravino enormemente?), a meravigliosamente soffrire in salita, a morire in bici, a non cercare altro che un finale dignitoso, a conchiudere un capolavoro americano quando nell’ultima discesa di un tappone alpino, a un Nibali che gli chiede il cambio, cioè di andare a tirare per contribuire a un recupero (che non ci sarà) sui migliori che sono più avanti, scuote la testa che non ce la fa e si vede costretto a negare il suo aiuto.