altri spot, festa della mamma, le torsioni dell'anaconda

Pater pa(r)tito

Ci sono momenti che sembrano scoccati appositivamente a inveramento del detto ‘nella vita nulla accade per caso’. Adesso imperversa il Padre, trattato con guanti(ni da zarevic) a certi piani alti del ‘romanzo’, e più modestamente affrontato anche dal sottoscritto in chiave prevalentemente patologico-ossessiva. “Di sepolcri, di sepolcruli!”, si potrebbe strillare. Si potrebbe strabiliare. E il tema di far riposare in pace i nostri morti si rovescia sempre nell’inconscio e maldestro tentativo di far riposare in pace le nostre vite hic et nunc.

Questi momenti sembrano comporre il catologo ragionato dell’anaconda, un mondo di solito molto più irragionevole, dove poi ogni cosa cade a fagiuolino occhipinto. Discettando di padri può capitare di passare all’esegesi dei patronimici. Un cerchio blu infinito, e in lui un astro… però sarebbe più un matronimico, e spirituale. Si prega di non andare a pescare tra le maglie blucerchiate l’esemplare tipico di devoto a San Nicola. Già fatto.

Ma le curiose ridondanze fioccano. La Grande Madre Penna che rinomina i suoi toy boys ha visto al cinema il manga in 3D Astro boy?

E vogliamo parlare poi di questi animali e piante, così somiglianti ad esseri umani, che paiono travasarsi da un’opera all’altra?

in questi momenti il mondo interlacciato può diventare una vertigine fatale. Letale per chi legge.

altri spot, le torsioni dell'anaconda, letteraria

togliemetti togliemetti

Vermeer, Donna che scrive una lettera

La terza è una traiettoria più dolce, una curvatura dell’anaconda che intercetta il volo ipnotico di un insetto necroforo. Lo scambio fecondo è cosa chiara alla pagina 256:

“Mia madre diede via i miei cani; quando morì, morì con i suoi gatti. Un gatto tigrato le stava acciambellato sul petto, quasi stesse covando la sua morte come una gallina. Un gatto siamese continuò a lungo a gnaolare nella sua stanza vuota.”

Tra coloro che leggo come le grandi asciugatrici americane, memento perpetuo all’essenziale, scopro questa autrice di racconti. Ogni racconto è una crosticina sulle pagine che formano il grande ventre bianco di una cagna colpita da mastite a cui hanno dovuto portare via la cucciolata. Dice che con lei si riedita il minimalismo, esistente come orizzonte narrativo solo nella mente di Gordon Lish. Un genere letterario intriso di devozione ai piccoli dettagli, investiti di significati sempre più ampi, che chiede al lettore un supplemento di attenzione, uno sforzo di compenetrazione da intendersi come piccolo sacrificio che verrà ripagato poi da sincera emozione. Eppure questo, quando si è al cospetto di Amy Hempel o della Munro o di Carver, continua a sembrarmi solo uno dei tanti aspetti dell’esperienza letteraria o della relazione che si instaura tra autore e lettore, e come tale non può esaurire la domanda di sistemazione critica dell’autore tra le varie correnti della contemporaneità, né tantomeno sembra sufficiente alla codificazione di un genere se non tramite l’affermazione di verità parziali sullo stile e sul giro della frase, e senza mai sventare del tutto il pericolo di fuorviare clamorosamente i lettori posti di fronte alla scelta di affrontare o meno quel libro. Perché quel che si impressiona sui fotogrammi di Amy Hempel, minimalista a detta di molti, bestiole antropizzate a parte, è un repertorio incredibile di aneddoti, spigolature (una donna del West Virginia ha tenuto in grembo il figlio non nato per più di quarant’anni. Si è calcificato fuori dalla parete uterina. Intervistata dai giornalisti, la donna ha detto: “Finché il bambino rimane dentro di me, non l’ho perso”.), battute ad effetto e colte strambate, che poco o niente hanno da spartire con l’esasperazione del non detto. Resta la struttura, per niente aristotelica, né hegeliana, né soggiacente ad alcuno dei canoni più o meno conosciuti, ma tutta bucata, slabbrata, in definitiva ermetica. Un respiro cortissimo come romanziere e il fiato corto persino come novelliere  per cui è molto vero che Amy Hempel “è tutto nella frase”. Ma quanto sbalordimento si ricava da ogni sua frase?

“Ci ha detto che da ragazzo dava la caccia ai topi, che una volta aveva scuoiato un topo ucciso da una trappola e ne aveva fatto un tappetino in pelle di topo per la casa delle bambole della sorella.”

Ragioni per vivere, Amy Hempel

letteraria

Il ritorno di Cavina, scrittore pizzaiolo

Recensione di Giuseppe Giglio, apparsa sul Riformista del 18 aprile 2009

Gilbert Keith Chesterton diceva che bisognava fare il giro del mondo per ritrovare la propria casa. E in quest’affermazione c’è tutto il senso dell’avventura chestertoniana, l’avventura del man alive, dell’uomo vivo, protagonista di tante storie del narratore inglese. Ma a volte basta fare il giro della propria casa per avventurarsi tra i sentieri della vita. E aprire una finestra sul mondo, capire di più di sé stessi e degli altri, scoprire insomma una porzione di esistenza. Che è poi la ragion d’essere di un romanzo. È quel che accade ne I frutti dimenticati, l’ultimo libro di Cristiano Cavina (Marcos y Marcos, € 14,50). Un romanzo breve – o un racconto lungo – ambientato ai nostri giorni, in cui l’incontro di Cristiano (il trentenne protagonista, pizzaiolo e scrittore al tempo stesso, come Cavina; o meglio: narratore innamorato delle storie) con uno sconosciuto concide con la prima tappa di un inaspettato viaggio: tra un presente difficile e i sogni della memoria (sogni che volano come mongolfiere), tra le pareti della casa e le viuzze del piccolo borgo romagnolo in cui Cristiano – che è anche l’io narrante – è cresciuto. Ove « era tutto un coltivare frutti dimenticati», una vera e propria festa collettiva, ogni anno celebrata: giuggiole, pere volpine, sorbi, lazzeruoli, cornioli; tutti tirati su con amore.

Un viaggio affidato a una scrittura scarna e asciutta, in cui strettamente e sottilmente si intrecciano autobiografismo e invenzione: a disegnare per linee essenziali luoghi e personaggi reali e simbolici al tempo stesso, a dar voce a una libera e felice fantasia che sdipana e avvolge grappoli di vita vissuta o in divenire; tra amicizie e inquietudini, gioie ed errori, passione e avventure, tra le bancarelle dei frutti dimenticati e frutti della vita non raccolti, o mancati. Con la leggerezza, il candore e l’innocenza che della favola sono propri.

E a proposito di favola, di favoloso: questa storia si potrebbe leggere come un’immaginaria cartolina dalla Romagna, di calviniana memoria; dove il fiabesco e il realistico, perfettamente complementari, cesellano un personaggio-uomo che anche a noi somiglia: inquieto e come alla ricerca di un’antica armonia perduta, o non trovata. Un personaggio che dolorosamente ritrova un padre mai avuto (un uomo «molto stanco che con abiti troppo grandi si avvicina alla fine», quasi al capolinea) al quale decide di raccontare la propria vita disordinata, che sembra sfuggirgli di mano, proprio mentre la sua compagna – che non è più sicuro di amare – sta per dargli (a lui, Cristiano) un figlio: un bimbo con occhietti da canaglia, da «unno invasore», e con i «mignoli perfettamente uncinati». Proprio le stesse caratteristiche di Cristiano: che da bambino, come un intrepido palombaro (sprofondato in una vecchia tuta da lavoro del nonno, con sulla faccia una maschera da saldatore), guizzava con straordinaria agilità nella camera della nonna a caccia di mirabolanti tesori, come fosse in fondo all’oceano, sicuro della protezione dei papà che si era immaginato: D’Artagnan, Sandokan, Jean Valjean, il conte di Montecristo, persino Dio.

I frutti della vita, dunque; quelli cioè che alla vita stessa appartengono, che le conferiscono dignità e senso. Dapprima assaggiati quasi inconsapevolmente, poi insinuati nell’animo, quindi riscoperti da adulto; e vissuti come favola di sé: l’assenza, l’inquietudine, la malattia, il dolore, la morte, la gioia, la fantasia, le cose semplici, i bambini, l’amore. Soprattutto l’amore, la scoperta e riscoperta dell’amore. E il lettore si sente come convitato ad un gioco di intelligenza attiva, pagina dopo pagina. Guizza - anche lui palombaro - nelle profondità cui si spinge il protagonista, a seguirne la difficile rotta. Fino all’epilogo della storia. Quando si torna in superficie, dopo aver recuperato qualche tesoro. Quando la vita finisce e ricomincia. Quando si viene a capo di un agile filo di fantasia che corre lungo le nostre iinquietudini, balugina tra le intermittenze del cuore, si impenna in grappoli di gioia.

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