Ai piedi del monte era in corso un temporale che scaricava fulmini a due metri dai ciclisti. Il grimpeur di 52 kg di peso, bestemmiava i morti all’acquazzone e a tutta quell’umidità che gli imputridiva in pochi minuti quel suo fragile dispositivo di pelle e ossa e ne comprometteva la performance e la salute. I giganti nordici invece ringraziavano il buon dio perché loro andavano meglio col freddo e si auguravano che le condizioni meteo restassero tali anche sul costone di roccia da scalare.

Un temporale produce un brusco abbassamento della temperatura, è vero, ma un temporale estivo passa in fretta e al km 7,5 della salita è di nuovo estate. Torrida estate. Lo scalatore italiano, curvo sul telaio della sua bici, come solo certe schiene di contadini del sud sanno esserlo, se la ride, ha smesso di scarrucolare, si gode il sole che lo riscalda e lo rinvigorisce mentre lo stesso sole provvede a disidratare i corpaccioni dei nordici. La roccia più si sale e più si fa calva come il suo capo, più crea richiami con la sua terra petrosa sparsa di uomini tanto laboriosi quanto silenziosi. Una terra sparsa di queste pietre incastrate una con l’altra, una sopra l’altra, senza calce né malta, a comporre non di rado curiosi abituri “con quella buffa intonacatura in cima al cono, che è la civetteria della pulizia, e dà l’impressione di un berretto da notte ritto sul cucuzzolo di un pagliaccio [...] queste bizzarre estremità dell’edilizia primitiva [...] come ha fatto questa gente ad allineare tanta pietra. Io penso che la cosa avrebbe spaventato un popolo di giganti. Questa è la murgia più aspra e più sassosa…”  (Tommaso Fiore, Un popolo di formiche).

La sua terra. Mica buona per gli allenamenti di uno scalatore: una terra ondulata e arida, qualche groppa qua e là, ma non ascese vertiginose, piuttosto apronsi lame nel terreno, o per altri versi inghiottitoi, gravine, crepacci. “Tutta la vasta plaga dei trulli, compresa Castellana, ricca di gravine e di grotte, se è così laboriosa, così nitida, non conosce il beneficio di una sola sorgiva, vive all’asciutto come il resto della Puglia ed anche più …” (Tommaso Fiore, Un popolo di formiche). Tutte asperità non ascensionali, anzi di segno opposto, ipogeo, volte ad aprirti voragini sotto i pedali, a farti mancare la terra sotto i piedi. A sprofondarti nell’oscurità di grotte e cave. Al fondo dell’orrido e del sacro, anzi dove l’orrido si confonde col sacro di una chiesetta rupestre intitolata alla madonna. Direttamente nel pleistocene inferiore. Carsica la terra come il probabile affiorare di pensieri, malinconie, dolori di chi sta faticando e sudando in corsa, al suo fianco. “[...] le nostre tante gravine, che rompono la spiaggia, sino al mare, ed insieme tutta la zona.”

 La testa di Leonardo per queste imprese è dura come il tufo delle sue origini. Adesso il suo ammasso di nervi e muscoli si abbatte sul pedale con violenza, con pesantezza di corpo tufagno in caduta rovinosa. E si risolleva dallo stesso pedale con la grazia di un monacello danzante. Nonostante sia uno dei più vecchi in gruppo. In questa alternanza di pesantezza di colpi e levità di slancio, si pippa la salita come una agognatissima droga. Se ne è compulsata di orografia.

La vegetazione alpina contro la reminiscenza “dell’aùzzo, l’antico funebre asfodelo” o “del giallo pulverulento delle biade [...] un nerissimo pino [...] un campo di patate”. Il paesaggio alpino contro “la stagliatura slabbrata di qualche lama, di qualche aspra gravina, qualche abrasione di sanguigno”.