le torsioni dell'anaconda

Pensare la vita

I vespilli dentro agli occhi, le loro uova tra le ciglia. Grappoli d’uova che gravano sulle palpebre e rendono intollerabile il mantenere gli occhi aperti. Un pensiero che si muove tra l’incoscienza e la biologia che resta. Vita pensa. Ancora qualcosa pensa e ricorda. Pensa alla vita della memoria, questa realtà di ricordi che come microorganismi guardati al microscopio ancora si dibattono, si affollano in un punto e poi si separano, corrono a pazza velocità e si schiantano contro le sbarre di una prigione, prigione alla quale l’involucro Vita, un tempo, prese gusto. Ricordarsi di quanti anni sono. Dieci anni che non parla con nessuno, a parte i monosillabi duri che si è riservata nel tempo per suo fratello e per sua madre. Dieci anni chiusi in casa e la materia da ricordare che vola via. Presto non c’è stato più niente da ricordare, solo l’immaginazione da far lavorare. Dimenticarsi di essere stata un membro della specie umana, un uomo. E immaginarsi di essere stata un tempo una donna. Ricordare e immaginare. Dimenticare e continuare a immaginare. È troppo, l’immaginare. Per avere presa sulla realtà, inesorabilmente sfumata negli anni, aveva immaginato ladri in casa, furiosi conflitti fuori, guerre di liberazione, disastri, apocalissi salvifiche. Countinua a leggere »

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Una realtà che levati

Non si ammette irrealtà della parola scritta (vergata nel Romanzo o nella Poesia da uno Scrittore) in quanto nella vita del genere umano non v’è niente di più reale. Più reale anche al cospetto della vita comunemente detta reale. Anzi, se c’è qualcosa di irreale nella vita del genere umano questo qualcosa è proprio la vita reale (comunemente detta), spesso condotta in modalità ’strambare’, appoggiata o impostata su sogni loffi o un po’ sballati, nella migliore delle ipotesi; delirante e segnatamente da incubo, nella peggiore.

Il libro di Giuseppe Giglio viene anche a ricordare queste parole di Vitaliano Brancati: “Il mondo è fatto di buoni libri: senza di essi, dietro di noi non ci sarebbe nulla; il mondo comincerebbe ogni mattina per finire la sera”.

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ciò che non siamo e non vogliamo

la coincidenza tra biografia e opera, dunque, non è un’ideologia ma una deduzione, una decifrazione tratta dalla realtà rimescolata in pagina. quanto è scritto non può non contenere tracce del sé scrivente; lo scrittore insuffla la vita nei personaggi, certo è indispensabile, ma se non ci mette la generosità, cioè se nella storia non ci sbatte se stesso, e se evita di farlo allo scopo di magnificarsi ma anzi lascia intendere o, meglio ancora, mostra del tutto la propria sgradevolezza, ha fatto cosa sacrosanta. quindi saviano non va bene, non è uno scrittore, non un facitore di letteratura.

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L’innestatore

Ho idea che Cormac McCarthy si sia come ingaggiato a immaginare la vita di Tom Joad dopo che questi ha abbondonato la sua famiglia in California. Ho idea che abbia preso quest’uomo, lo abbia ribattezzato Cornelius Suttree e calato nel 1951 a Knoxville, Tennessee.

Nel romanzo di Steinbeck ci sono dei frammenti che giuntano il testo paragonabili a delle odi corali, benché prive di strofe e antistrofe, dalle quali scaturisce vento epico che soffia su tutta l’odissea dei Joad, della Famiglia. Ho idea che McCarthy invece abbia riconsiderato questi perni che rammendano la “notte” dei Joad nella loro lunga traversata verso la sconfitta, e li abbia fusi facendoli colare e rapprendere come oro lirico sulle figure del suo teatro d’ombre.

Allo stesso modo il grande romanzo americano transita da una tradizione “socialista” in cui si rappresentano le vicende, diremo collettive, dei più deboli in lotta per la sopravvivenza e contro nemici sempre più grandi e imbattibili, alle sacrosante pippe individuali del singolo irredento, inassolto, malvissuto e poeta.

Con tutto questo c’entra qualcosa il dire che Victor Hugo ed Émile Zola (il mistero della fruttificazione del seme avvicina Germinal e Steinbeck in un modo a mio parere evidentissimo) sono meglio di Marx e Lenin? E a suffragare questa considerazione può servire la ricchezza di sfumature proprio in The Grapes of Wrath, dove convivono un Casy predicatore che spretandosi diventa il più comunista di tutti, e una voce molto più cosciente di quella di un banale sindacalista, che non smette di parlarci dell’ostinazione a vivere e di quella costante dell’uomo che è il perenne suo sussulto di vitalità, quantunque egli sbagli, inciampi e retroceda di “un mezzo passo, mai di un passo intero”, concludendo che in quel passo così faticoso risiede il progresso dell’umanità?

Mi sa che si deve passare di qui, da questi libri, per vedere dove si formano per la prima volta le immagini che, imprimendosi definitivamente nella percezione di ciò che è America, diverranno topiche: scassoni su strade liquefatte dal caldo, uomini accoccolati sui talloni che tracciano segni nella polvere con un fuscello, sgualdrine, puttane, mestatori, grassatori di strada, “delitti che trascendono ogni denuncia”, zotici, trincatori e quadrincatori, derelitti e ratti e negri e galeotti. Si può anche passare per un film di John Ford che una grande fotografia di un espressionistico bianco e nero fa aderire bene al Furore che si legge, film a cui, però, non potrò mai perdonare la mutilazione dell’ultima grandiosa immagine del libro. Avranno anche avuto problemi di censura, o di varia natura, durante la realizzazione della pellicola, ma non si può soprassedere su una scena così potente e straziante, fondamentale nel racchiudere tutto il senso di quanto si è scritto, senza svuotare di significato il solo aver pensato di poter tirare via un film da cotanto romanzo.

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Vermeer, Donna che scrive una lettera

La terza è una traiettoria più dolce, una curvatura dell’anaconda che intercetta il volo ipnotico di un insetto necroforo. Lo scambio fecondo è cosa chiara alla pagina 256:

“Mia madre diede via i miei cani; quando morì, morì con i suoi gatti. Un gatto tigrato le stava acciambellato sul petto, quasi stesse covando la sua morte come una gallina. Un gatto siamese continuò a lungo a gnaolare nella sua stanza vuota.”

Tra coloro che leggo come le grandi asciugatrici americane, memento perpetuo all’essenziale, scopro questa autrice di racconti. Ogni racconto è una crosticina sulle pagine che formano il grande ventre bianco di una cagna colpita da mastite a cui hanno dovuto portare via la cucciolata. Dice che con lei si riedita il minimalismo, esistente come orizzonte narrativo solo nella mente di Gordon Lish. Un genere letterario intriso di devozione ai piccoli dettagli, investiti di significati sempre più ampi, che chiede al lettore un supplemento di attenzione, uno sforzo di compenetrazione da intendersi come piccolo sacrificio che verrà ripagato poi da sincera emozione. Eppure questo, quando si è al cospetto di Amy Hempel o della Munro o di Carver, continua a sembrarmi solo uno dei tanti aspetti dell’esperienza letteraria o della relazione che si instaura tra autore e lettore, e come tale non può esaurire la domanda di sistemazione critica dell’autore tra le varie correnti della contemporaneità, né tantomeno sembra sufficiente alla codificazione di un genere se non tramite l’affermazione di verità parziali sullo stile e sul giro della frase, e senza mai sventare del tutto il pericolo di fuorviare clamorosamente i lettori posti di fronte alla scelta di affrontare o meno quel libro. Perché quel che si impressiona sui fotogrammi di Amy Hempel, minimalista a detta di molti, bestiole antropizzate a parte, è un repertorio incredibile di aneddoti, spigolature (una donna del West Virginia ha tenuto in grembo il figlio non nato per più di quarant’anni. Si è calcificato fuori dalla parete uterina. Intervistata dai giornalisti, la donna ha detto: “Finché il bambino rimane dentro di me, non l’ho perso”.), battute ad effetto e colte strambate, che poco o niente hanno da spartire con l’esasperazione del non detto. Resta la struttura, per niente aristotelica, né hegeliana, né soggiacente ad alcuno dei canoni più o meno conosciuti, ma tutta bucata, slabbrata, in definitiva ermetica. Un respiro cortissimo come romanziere e il fiato corto persino come novelliere  per cui è molto vero che Amy Hempel “è tutto nella frase”. Ma quanto sbalordimento si ricava da ogni sua frase?

“Ci ha detto che da ragazzo dava la caccia ai topi, che una volta aveva scuoiato un topo ucciso da una trappola e ne aveva fatto un tappetino in pelle di topo per la casa delle bambole della sorella.”

Ragioni per vivere, Amy Hempel

diario di un giullare timido, letteraria

I denti bianchi di Pio La Torre

La tre giorni del Caffè Letterario è stata una camera iperbarica fatta arrivare a Modugno grazie all’abnegazione e all’ansia di partecipazione dei ragazzi di Giovani Menti Attive in collaborazione con la scuola di formazione Antonino Caponnetto. Ad un paese ad ossigenazione (dei tessuti) limitata è stata data l’opportunità di farsi somministrare un po’ d’aria pulita. Non tutti quelli che potevano beneficiarne però hanno saputo approfittarne. Già, perché in questo comune, letteralmente ammorbato da un’aria pestilenziale, da anni, si preferisce soprassedere, lasciare andare e mandare in vacca tutto quanto. E anzi no. Forse non è questo. Forse il fatto che ci sia puzza di merda, merda originale, che si diffonde nel centro abitato quasi che questo fosse un unico, sconcio vicolo pieno di miasmi e esalazioni infette, rappresenta per molti un segreto piacere: come quando si molla una loffa a letto e ci si ritira con tutta quanta la testa sotto le coperte per bearsi dei propri odori. Countinua a leggere »

diario di un giullare timido, letteraria

Quando il romanzo lo scrive il film

E a proposito di ‘far decantare le cose’, torno solo ora dalla lettura di Gomorra, dopo aver lasciato che si accumulasse polvere sul libro per ben tre anni. Acquistato alla sua prima uscita e subito deposto in uno scaffale della mia libreria, avrei voluto che sul fondo del caso Saviano si depositassero tutte le distorsioni mediatiche per poi poter sprofondarmi nella lettura del libro finalmente chiarificato ma, ahimè, devo constatare che non è mai stato possibile in tutto questo tempo togliere l’ingombro del film e degli oscar mancati, della scorta, della fatwa dei casalesi, delle polemiche sui giornali, dei nuovi interventi giornalistici di Saviano e del conseguente, rinnovato clamore attorno all’affaire. E poiché sospettavo il libro un po’ troppo schiacciato sul cronachismo, per non perdermi completezza di informazioni a sicuro rischio di obsolescenza, mi son dovuto affrettare a leggerlo. Ma non diversamente da come affronto la lettura quotidiana de la Repubblica: compulsivamente. Nell’ossessione di avere il presente interamente monitorato, dominato e posseduto, e nella penosa illusione che quante più numerose e dettagliate sono le informazioni che dal presente riesci a ricavare tanto più accresciuta, puntuale, agguerrita e centrata sarà la capacità di scavo della tua lingua al cospetto della realtà. Il tutto secondo una logica però malata, che ottiene l’effetto opposto: ti porta pian piano lontano dai libri ma sempre più addosso ai quotidiani, ai settimanali, alle notizie on-line. Ecco, Gomorra l’ho letto con questo personale spirito di stare andando lontano dai libri e più vicino, anzi sempre più dentro la mia personale coazione a ripetere l’inutile lettura di articoli, critiche, recensioni della cosa. Un demente girare attorno alla cosa a scapito della discesa, dello smarrimento NELLA cosa.

Aggiungo però, a lettura ultimata, che Saviano ha scritto un libro di grande valore e che tale valore vada inscritto in qualche branca delle discipline intellettuali ma non certo nella Letteratura, ambito nel quale mi sembrava claudicasse.

E poi di Gomorra: Saviano ha scritto il libro ma il romanzo l’ha scritto il film. Li si pongano a confronto e, a parte l’ovvia considerazione che senza il libro non ci sarebbe il film, mi si dica in quale dei due mezzi espressivi si rintracciano i segni di una grande narrazione.