letteraria

La penna dell’epidemia

Un uomo che lavora, la povertà, il futuro lentamente chiuso, il silenzio delle sere intorno alla tavola, non vi è posto per la passione in un tale universo. Probabilmente Jeanne aveva sofferto. Era rimasta, tuttavia; accade che si soffra a lungo senza saperlo. Gli anni erano passati. Poi era fuggita, e beninteso non era fuggita sola. “Ti ho amato molto, ma adesso sono stanca … Non sono felice, se parto; ma non si ha bisogno di essere felici per ricominciare”. Questo, pressappoco, gli aveva scritto.

Joseph Grand, a sua volta, aveva sofferto; avrebbe potuto ricominciare, come gli osservò Rieux. Ma ecco, a lui mancava la fede.

Semplicemente, pensava sempre a lei. Quel che avrebbe voluto fare, era scrivere una lettera per giustificarsi. “Ma è difficile”, diceva, “ci penso da molto tempo. Sin tanto che ci siamo amati, ci siamo intesi senza parole. Ma non ci si ama per sempre. A un dato momento, avrei dovuto trovare le parole per trattenerla, ma non ho potuto”.

pagg. 64-65

letteraria

I frutti di Camus

Seguendo, in un percorso squisitamente ideale e simbolico, le madri di Camus, cominciato qui, l’attenzione si sposta sul dono di vita con cui quelle madri arricchiscono l’umanità nelle pagine dello scrittore

Orano, luogo arido sotto il duplice aspetto del clima meteorologico e delle relazioni umane, città in cui “ci si applica a contrarre delle abitudini” (i giovani, ad esempio, si divorano rapidamente nell’atto d’amore oppure si impegnano in una lunga abitudine a due), ebbene Orano rende scomodo il morire.

Orano volta le spalle, in senso propriamente morfologico, a un paesaggio di impareggiabile bellezza, dunque Orano volta le spalle, in senso più allegorico, alla bellezza. Alla bellezza della natura e, in definitiva, della vita. Su Orano, cioè, il sipario si apre come su un luogo compiutamente dell’assurdo. Per quanto la narrazione non sia più in prima persona come ne Lo straniero, questa città sembrerebbe proprio l’elemento di Meursault, il palcoscenico sul quale l’impiegato, indifferente a tutto, potrebbe seguitare a gironzolare.

E così, sull’assurdità di un siffatto vivere s’abbatte l’insensatezza di un assurdo morire: la peste. La trista contabilità dei ratti morti mette fine all’estraniamento come categoria dell’arte. L’esplorazione delle passioni umane può cominciare. Estetica dell’assurdo: punto e fine.

Accanto a “modesti funzionari dediti a onorevoli manie” ecco ora emergere uomini che hanno “il coraggio dei loro buoni sentimenti” come il Joseph Grand che non trova le parole e passa il resto dei suoi giorni a ricomporre all’infinito le prime righe di un romanzo ch’egli avrebbe in mente di scrivere.

I flagelli che la peste reca agli abitanti della città in cui ha scelto di stabilirsi, come si diceva, sono “esilio” e “separazione” : amici, amanti e familiari che per le più svariate ragioni si trovano fuori da Orano e non possono più rientrarvi per le misure di quarantena imposte alla città, lacerati dal desiderio del ricongiungimento con coloro che sono rimasti “prigionieri” all’interno delle mura, sperimentano ad un tempo il dolore di “una memoria che non serve a nulla” e l’ottusità di una condizione priva di futuro. Lo scarto è precisamente qui: esilio e separazione vengono appunto percepiti come pena, non quindi passivamente accettati come in Meursault.

(continua)

letteraria

… DUNQUE

Problem solving

ragionevoli ragionamenti di amministratori

che non devono dar conto a nessuno

letteraria

Le madri di Camus

Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so.

Ho idea che Camus vada letto, seguito e interpretato, lungo il suo percorso narrativo, ponendo attenzione ai brani in cui mette in scena la morte di una madre.

L’incipit sconturbante de Lo straniero è incredibilmente emblematico (quando si dice: nelle prime righe c’è già tutto) del tono e dei significati dell’intero libro. Verissimo. Eppure esaurisce tutta la sua rappresentatività in questo testo. Vale a dire che esso non rispecchia approdi ed esiti delle prove (gigantesche) successive del medesimo autore. Pare, cioè, che Albert Camus pur continuando a servirsi di arnesi quali assurdità della vita e insensatezza della morte vi imbastisca sopra altro genere di costruzioni; egli si mette alle spalle ogni accostamento al genere dell’assurdo, riuscendo nell’impresa di mantenere in curriculum un’opera che dell’assurdo resta, ad ogni buon conto, un capolavoro. Tanto Lo straniero appare come un disumano esercizio di distanza e di estraneità rispetto al calore della vita, quanto La Peste e La caduta sembrano provare nostalgia dell’umano, nutrite come sono di consapevolezza per quel poco di cui l’uomo è chiamato a rispondere sulla terra e, nondimeno, di frustrazione per i fallimenti che al comportamento dell’uomo sono imputabili.

E così, personaggi drasticamente amorali come l’impiegatuccio Meursault, straniero a se stesso, accanitosi a rivoltellate, senz’alcuna ragione, sul corpo di un arabo, non potranno più godere nei successivi libri di un primo piano così spinto come ne Lo straniero. I motivi dell’esilio e della separazione resteranno al centro dell’opera di Camus ma declinati prevalentemente in una scrittura più morale. Laddove, nello scrittore premio Nobel, “più morale” non vuol dire rigida divisione tra il Bene e il Male, tra innocenti e colpevoli, vittime e carnefici, e via elencando – distinzioni che non si possono operare se non andando giù di un’accetta che certo non appartiene a Camus – bensì tensione costante verso l’individuazione di “un criterio minimo” che deve pur esistere per distinguere l’ingiustizia dal suo contrario. Significativo, al riguardo, l’atteggiamento del dottor Rieux de La peste, il quale precisa che non la salvezza degli uomini gli sta a cuore ma, più modestamente, la loro salute. Ecco, un’opzione morale per Camus può essere, per esempio, quella di provare a fare bene il proprio mestiere.

Ma si diceva dei libri di Camus letti attraverso il racconto della morte di una madre. Vediamo, confrontandoli con l’esordio fulminante de Lo straniero, come cambiano, ne La peste, il passo, la parola, il soffio, il palpito dell’autore dentro alle parole di un personaggio non secondario, anzi bellissimo e indimenticabile, qual è Tarrou:

Mia madre […] in lei amavo la stessa discrezione, e lei sempre ho voluto raggiungere. Otto anni or sono, non posso dire che sia morta; si è soltanto affievolita un po’ più del solito, e quando mi sono voltato non c’era più.

Anche l’anziana madre di Rieux è oggetto di un ininterrotto sguardo di tenerezza da parte del medico e dell’autore, mentre nella città nordafricana di Orano imperversa il flagello che mette a dura prova l’umanità dei sentimenti di tutti gli abitanti.

(continua)

altri spot, diario di un giullare timido

di feste comandate

per il caldo mortale vanno i gomiti contro i gomiti nel buio indie cieco pesto di drum machine e vanno in apparenza di flanella sbalorditi d’umidità ma quanto prometeici nell’ontologia più eighties vanno incontrollati i sessi nelle livree slabbrate contro scrigni caramellati i sessi liquefatti verso l’adriatico mugghiante traverso la messicana cola olidda il ballo la febbre il dolore vanno tarantati romiti salmastri pei cessi colombiani incontro alla morte più petite mentovando estetiche accampando scuse inalberando gioia d’avere vent’anni saecula saeculorum

letteraria, minimi sistemi

VENGO DAL MONDO DELLA NON VITA E DEL NON TEMPO. NON TORNO IN ALBANIA MA QUI DOVE VIVO NON SONO IN ITALIA

Il cielo deve essere celeste ma può essere che il cielo sia verde
e che gli alberi siano rossi.
Perché il disegno è pensiero e il colore, invece, è sentimento.

diario di un giullare timido

Diario del piazzale /1

9 agosto. Epifania delle ore 14.30.

Desertitudine che ti viene da piangere. In lontananza appare ’sto cozzalo delle campagne limitrofe, s’avvicina con andatura costante e un po’ indolente, come se la costanza indolente fosse un modo per dargli il fatto suo, al caldo umido; mi passa davanti a me che lo stesso me ne sto a grigliare per scelta, e prosegue oltre. La canotta per turbante. Spasseggia il suo cammello lungo lo stradone che costeggia l’area di servizio, ’sto tuareg in agro modugnese. Vanno così, i beffardoni, e scompaiono dietro la curva della strada.
Un puzzo insostenibile – a gradire. Dice che è stallatico ma non ci credo. È troppo fogna. Attraverso tutto il piazzale fino alla recinzione che dà sull’uliveto, e dall’altra parte lo vedo, ‘orca se la vedo, l’autobotte che circola smerdando tutto in giro per il fondo. Una bocca laterale aperta riversa liquami e così si slavandina tutta la campagna.
Dal chioschetto mio, la radio canta Zucchero: “Sei proprio tu che cosa vuoi di più poroporoppoppero …”.

letteraria, minimi sistemi

Besnik Sopoti. E tu, chi sei?

Gli orrori e la follia del secolo scorso lo riguardano molto, molto da vicino. Un fantasma carico di colori approdato da straniero a casa sua, nel paese mancato di Modugno e in una Nazione, la sua, che lo guarda con occhio razzista.

letteraria

loro credono sia questa una recensione autobiografica?

Qualcuno, un Azazel, mi porti all’inferno e colà si porti pure il tormento e la bellezza del mio romanzo. Sì sì, anch’io scrivo solo per Jeshua, Woland e Margherita. Che per questo si additi al mondo la stolida irresponsabilità della camarilla degli “intriganti, conformisti e leccapiedi”, “fratelli in letteratura”, uomini di vaste letture e smagliante cultura, “gioiosamente dediti al loro vuoto” mentre nei vieti cerimoniali si incensano tra tartine e pizzette, per tacere di un “pesce persico au naturel“, delle “uova-in-cocotte con una purée di funghi in tazza”, e il sentimento gli si eleva ad altezze celestiali al cospetto rarefatto dei “filettini di tordo” e delle “quaglie alla genovese”. Io ci ho il mio fornetto dove appronto l’eterna zuppa “ignivomo lago”, sarei disposto a dividerla con la bestia Behemoth e il diavolo mi porti perché nel teatro della vita, e non nell’antivitale teatro del palcoscenico, ho imbrattato le anime belle. Pur non trascurando, prego notarlo, di insozzare la mia, vedomi oppugnato e un tantinello misconosciuto nella potenza figurativa del mio ingegno. Che il tram giustizi, opportunamente decollandoli, i direttori di riviste letterarie dalla “robusta erudizione”. Che qualche mia devota stregaccia rada al suolo le villazze dei parrucconi, loro già rasati con cura, che mi condurranno ai matti.

Alfine posso dire. Il mio, molto inedito, è il miglior romanzo dell’Unione Sovietica del secolo venturo.

diario di un giullare timido

e non mi squaglio

Io che pure transitai dal modo à tiroir di RAVB alla vagotecnica dell’entrelacement della “via gràl o il parto dell’anaconda” già OK PER IL CASSETTONE, mia ultima, molto inedita e non meno versipelle (direbbe il principe De Curtis) fatica letteraria.

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