Non è un caso che in italiano non vi sia distinzione tra mangiare flash e mangiare meat. L’onorevole coratella cristica, reiterata a nastro, mette d’accordo tutti nella stessa grande abbuffata, cioè nella stessa danse macabre cannibalica. Il piacere lungo della tavola (in molte regioni italiane) non è ancora stato compromesso dal consumismo, dallo spreco e dal troppo di tutto spersonalizzante altrove anche a ore pasti. Perché resiste non in virtù del narcisismo di chi lo coltiva e ne fa a volte un manifesto artistico o s’illude di costruirsi il riferimento estetico del proprio percorso esistenziale - salvo poi, tra una raffinatissima prolusione enogastronomica e l’altra, alzarsi da tavola e abbandonare frettolosamente la compagnia perché ha da cacare; resiste non per questa nuova declinazione del radical chic, rispettosamente biodiversa, politically correct e quasi flexitarian. Tutt’altro. Resiste in ragione dell’odore del sangue, che ancora dà alla testa, alimenta la fame, accresce la voracità come per i pescecani: l’agnello, il cristo, il carne della mia carne, il mio corpo, il sanguinaccio. In tutto questo c’è sovrabbondanza, è vero, ma non è la stessa che caratterizza il bombardamento esasperante di inutili quantità di qualcosa. È piuttosto la sovrabbondante ferocia dell’uomo sull’uomo che si fa rituale, arrosto sacrale del mangiarsi i cristiani credendo di mangiare da cristiani. È una coazione a ripetere i consòli anche lontano da eventi luttuosi, un modo per non rimuovere la morte e anzi per paventarla a giro, di minacciarla più o meno seriamente anche ai commensali. Il settimo sigillo si rinnova nella generose portate che riforniscono il desco, ove ci si segna prima di addentare alcunché davanti a un crocifisso immaginario che non è mai un qualunque crocifisso da arredamento ma è sempre, inconsapevolmente, quello dell’altare di Isenheim, quello di un dio giustamente crocifisso, quello che sancisce la possibilità di una giustizia solo tra egualmente colpevoli. Nella partita a scacchi con la morte le pedine non sono le solite, e non sono neanche pedine umane; sono pietanze umane: ora mangio un pedone, ora un alfiere, il re e la regina, ora mi ti mangio, in un conflitto dall’esito già scritto in cui i vari passaggi sono arbitrati da uno dei due giocatori, il capocomico con la falce. Max von Sydow, l’umano, rompe i coglioni perché fa troppe domande, e non l’ha mai voluta capire che quando si mangia non si parla. Mentre il quarto uomo è troppo lontano per partecipare all’atroce banchetto, e tuttavia non abbastanza da non riuscire a vedere, ragion per cui si limiterà per sempre alle rappresentazioni, che è come dire che è un saltimbanco e farà la fame perpetua, salvando forse così se stesso e la sua famiglia.