Non è un film su un capostazione. Non su un pittore. E neppure su un capostazione con velleità da pittore. Non è lui il protagonista.

Le cose non sono mai come sembrano. Questa la chiave de L’uomo nero, dove anche l’uomo non è poi così nero, il padre non così inetto e irritante come appare per tre quarti del film, la provincia pugliese non così ripiegata su se stessa.

Si è discusso sul carattere regionale della pellicola di Rubini ed è stata, come al solito, critica oziosa alquanto. L’oleografia delle masserie e del paesaggio murgiano, il folklore di certe macchiette come Mariolina De Fano, non sono impiegati per sprofondare la vicenda nello stereotipo da cartolina ma piuttosto spremuti fino all’ultima goccia di prevedibilità e riconoscibilità perché altrimenti il gioco di prestigio che è la scrittura filmica non funziona. In questo caso specifico per di più, siamo alla metasceneggiatura: al disvelamento, all’agnizione, occorrono una vita intera e forse più, quella del padre e quella di Sergio figlio. Il risultato è che l’opera di genere autobiografico acquista un senso per niente ombelicale, tutt’altro: perde proprio la qualifica di genere. È semplicemente buon cinema, nel quale si può fare anche buon uso di Riccardo Scamarcio (sapiente la gestione a piccole dosi).

Spiacevole la colonna sonora di Nicola Piovani, troppo uguale a quella de La vita è bella, che lascia senza risposta l’interrogativo: era solo svenato il compositore premio Oscar o volevano con un plagio smaccato sottolineare la bravura del ragazzino Giaquinto almeno pari a quella del suo coetaneo nel film di Benigni?  Ma il piccolo Guido non aveva certo bisogno di quel genere di stampella.