Se il neorealismo cinematografico italiano traeva ispirazione dalle macerie fisiche e morali di un paese prostrato dalla guerra, se succhiava forza propulsiva dalle difficoltà quotidiane derivanti dalla necessità di ripartire da zero in una cornice di tirannica miseria, si deve allora ammettere che il film La nostra vita (2010) di Daniele Luchetti aderisce pienamente e felicemente, cambiati solo pochi fattori, a un genere che mai fu scuola né statuto, che seppe sottrarsi a tentazioni teoriche e che in virtù forse di queste caratteristiche rese grande, anzi sommo, il cinema italiano nel mondo. C’è chi su questo obietta, ritenendo impossibile il rinnovarsi oggi di quella esperienza neorealista perché definitivamente chiusa col superamento delle sventure dell’epoca in favore di una società ricostruita e annessa al benessere occidentale. È vero: allora accadde che si riuscì a raccontare la Grande Storia, appena passata con tutto il suo carico inaudito di boria e violenza e buio, attraverso la cronaca minuta di sciagurate esistenze alle prese con le loro povere cose (poveri mestieri, povere scarpe, molti stracci) e con i loro espedienti, a volte ingenui altre astuti altre ancora geniali; ed è anche vero che per sostenere un confronto come quello che qui istituisco devo passare attraverso le forche caudine di una dura prova: dover dimostrare che il film qui preso in esame condivida col neorealismo del dopoguerra un requisito fondamentale: la dimensione epocale in cui le vicende narrate andrebbero ad inscriversi. Ci provo.

La nostra vita di Luchetti, ma aggiungerei senz’alcun dubbio anche di Rulli e Petraglia, cade in un passaggio storico capitale (e lo coglie molto bene) a mio avviso, il frangente in cui, cioè, non è più possibile ignorare né occultare con slogan propagandistici la Realtà. In analogia col neorealismo qui ci si trova di fronte ad un paesaggio altrettanto devastato, nel quale sono andate perdute le parole ed insieme a quelle la capacità di far fronte agli avvenimenti della vita. Il dramma sorprende il protagonista mettendolo di fronte ad un evento doloroso, come è naturale che capiti nella vita per quanto prematura possa essere la scomparsa di una giovane moglie, senza che questi abbia però l’equipaggiamento minimo per l’elaborazione del lutto. La realtà si riprende (esattamente come fa la natura) tutti i suoi spazi, si reimpossessa di ciò che è suo e che altri credevano di aver obliterato sostituendola con i suoi surrogati a pagamento. È un universo multietnico ma gli italiani che lo popolano sono convinti fino al fanatismo del potere dei soldi, necessari non solo per il proprio sostentamento ma anche e soprattutto nel momento in cui le faccende si complicano maledettamente, fiduciosi che “coi soldi tutto s’aggiusta”. Il personale anno zero di Claudio arriva appunto con l’uscire di scena del senso della misura o meglio, è il caso di dirlo, del senso della realtà incarnato dalla moglie Elena, elemento che riesce a mitigare le intemperanze consumistiche cui suo marito sembra incline. I primi dieci minuti del film delineano con estrema accuratezza il quadro di base: un operaio edile, forse un caposquadra, preoccupato unicamente del proprio stipendio e dello status che da questo discende, innamorato della propria donna incinta del terzo figlio, con un vocabolario limitato e molti suoni gutturali pronti a eruttare quando la parola non lo soccorre, scopre un cadavere nella tromba dell’ascensore del cantiere nel quale lavora. Si tratta di un incidente, di una morte bianca sul lavoro e Claudio si guarda bene dal denunciarla per non bloccare i lavori. Poco dopo muore Elena mentre dà alla luce Vasco. L’unica reazione che Claudio riesce a concepire è quella di fare ancora più soldi per risarcire con questi i propri figli, già privati della figura materna. Allora il custode morto, lungi dal suscitare la sua pietas, diventa una ghiotta occasione per estorcere all’imprenditore edile per cui lavora un subappalto che, si immagina, dovrà fruttargli chissà quali ricchezze. È a questo punto che compare il figlio del custode, il quale si rivolge a Claudio per avere notizie sulla sorte del padre. Ancora una volta, motore drammaturgico oltre che motivo umano ricorrente, codificato nel mito di Antigone una volta per sempre, un cadavere insepolto. Ancora una volta, l’anaconda che scandolezza il mondo.

Da questo momento in poi la storia segue il suo corso e non c’è bisogno che ne dia conto. Piuttosto è importante dire che si svolge coerentemente tutta dentro il mondo del lavoro nero, dei muratori, in una terra di nessuno (sarebbe periferia di Roma, ma di Roma non c’è traccia) fatta di pratoni da lottizzare e cementificare, tra pescecani dell’edilizia ed extracomunitari senza permesso di soggiorno ma con un bene più prezioso: la loro dignità. La macchina da presa sta addosso agli attori, e come una scimmia sulle spalle di Claudio, a significare lo sguardo abbassato al livello di questi borgatari per testimoniare empaticamente del loro individualismo svilito in autismo, della loro incapacità di comunicare per davvero, pure anche della loro impotenza nello stabilire ciò che desiderano realmente. Il senso della vita, della nostra vita come suggerisce il titolo, pare tutto riposto nel danaro ma per averlo ci si è svenduto di tutto in una borsa nera senza fine che non ha riguardo neanche dei sentimenti più elementari, appiccicando un prezzo pure a quelli: tutto si può comprare, anche le coscienze. Prezzi trattabili. Solo che l’uomo privato della parola prima e della coscienza dopo, è parente assai prossimo all’animale, di una prossimità che ha trasceso quella naturale e fisiologica, propria del suo stato, e che finisce per assomigliare molto a quella che si può osservare nei comportamenti che egli tiene durante i periodi di guerra.