Quando la strada sale sotto le ruote e ci si deve alzare sui pedali

spesso arriva il momento della verità. Pur trattandosi di sforzo fisico diventa necessario conservare la concentrazione, la mente deve mantenere la sua presa sul progetto di giornata. Quale che sia il progetto: mantenere la maglia rosa e quindi difendersi; conquistare la maglia gialla e dunque attaccare; portare a termine la tappa sapendo di non essere in forma, di essere giù di corda, di aver dormito male, di stare male per dissenteria, allergia, bronchite, ferite da cadute precedenti. Arrivare in cima a un traguardo posto a 2600 metri di altitudine, o concludere una tappa di di alta montagna che consta di 230 chilometri. Arrivare purchessia e fare di ciò un punto d’onore.

Al primo chilometro di salita, esce sparato come un proiettile lo scalatore andino che andava meglio negli anni scorsi ma da un pò si è come smarrito. Verrà ripreso in un amen e non riuscirà a stare neanche con i migliori. Comincia quindi il forcing della squadra che ha uomini in grado di darsi e aggiudicarsi un traguardo di giornata. Si alza il ritmo per scremare il gruppo, il quale comincia a sfilacciarsi, perdere unità. Al terzo chilometro di salita uno dei favoriti per la vittoria finale è in difficoltà, le gambe non girano, e allora meglio lasciarsi sfilare, scivolare indietro, salire del proprio passo che non si sa mai, magari ci si riprende più avanti e allora vi faccio vedere cosa vuol dire l’esperienza, il sapersi gestire le energie, conoscere i propri limiti. Nel frattempo quello che è un passista ha fatto magari la stessa scelta e il velocista si è già imbucato nelle rete, il gruppetto di ciclisti non specialisti della montagna organizzatosi col solo fine di arrivare sul traguardo entro il tempo limite.

Tra il terzo e quarto chilometro è già scolpita nell’epica la figura del gregario: è lui che sta operando la selezione dei migliori; le sue rasoiate valgono a condannare chi sicuramente oggi non potrà vincere. Magari tra pochi minuti magari le sue gambe forsennate smetteranno improvvisamente di spingere sui pedali e lui, svuotato, si lascerà scivolare indietro anche lui. Gli altri corridori dati per favoriti nel frattempo si studiano, si affiancano, girano il collo proprio per vedere che tipo di luce emana dagli occhi dell’avversario, che tipo di pena cova la smorfia del volto dell’altro. Qualcuno può sembrare più fresco degli altri, andare come se non ci fosse sotto le ruote una rampa del 16, 17, 18 %. Forse bluffa, forse no. Il guasconcello vorrebbe scattare mentre dall’ammiraglia gli dicono di aspettare, è presto, è prematuro partire così come lui vuol fare,  i chilometri son tanti e potrebbe pagare cara la sua avventatezza.  

Al quinto chilometro il gruppo è ridotto a una quindicina di uomini. Qualcuno dei campioni ha ancora compagni di squadra che lo proteggono, rispondono agli attacchi in sua vece finchè ce ne hanno. Si dice “non ne ha più” ed è una delle espressioni (per quanto invalsa e banalizzata dalla ciarla giovanilistica) più belle del ciclismo. Non averne più: ritrovarsi traditi e abbandonati da tutta la propria pienezza di atleta con dei muscoli, con della forza fisica, con dell’ossigeno, del carburante, che fanno secessione dal corpo lasciandolo solo involucro, simulacro di un pedalatore professionista, ridotto a nera esalazione di se stesso che deve pur concludere e lo farà con l’inerzia residua.

 

P.S. mazzi di fiori ad AURO BULBARELLI E DAVIDE CASSANI. E tra gli uomini di sport aggiungerei Marco Van Basten perché è un uomo integerrimo. Se ti dice alle nove, lui arriva alle nove.