Il due novembre, come sempre ogni due novembre, la gente s’andava raccogliendo attorno ai propri cari defunti, affluendo placidamente alle tombe. Folte comitive o sparuti capannelli, ma anche commosse solitudini, raggiungevano il proprio tumulo di riferimento per immergersi quindi nella ciarla dei più svariati argomenti. Si accosciavano sulle pietre, bivaccavano, si intrattenevano in oziose conversazioni.

Una donna, dopo aver appeso la sua borsetta a un ramo di cipresso, attaccava a parlare di un tale di sua conoscenza che ieri sera se n’era andato senza salutare. E coi suoi anziani famigliari ne faceva un caso infuocato.

Un uomo in giacca a vento rossa, con un velo di torba in faccia, i lineamenti rifatti dalla dispepsia, recava un mazzetto di semprevivi coi gambi avvolti nella stagnola e sforzandosi di sorridere raccontava a un manipolo di parenti quanto avesse mangiato pesante la sera prima. “Mamma santissima!”, andava ripetendo ogni volta che uno sbuffo da reflusso tipico lo ingrippava.

Si alzava, in definitiva, dal cimitero qualcosa che non mugghio di dolore bensì murmure di cazzeggio poteva ben dirsi. A conferma del tacito e generale convincimento che discorrendo in quel luogo, in un pigro e più o meno amabile cicaleccio, se non un disteso consuntivo quanto meno dei suoi minuzzoli potevano pervenire in qualche modo ad esser trattenuti presso i cari morti.

La narrazione degli avvenimenti che non li aveva visti protagonisti, o tampoco spettatori, perché né il Signore né in seconda battuta il Fato lo avevano voluto, il semplice racconto anche delle puttanate e una pregevole rassegna di estratti dell’oralità popolare contemporanea, finivano per restituire a questi trapassati, a questa stesa di buonanime, una specie di partecipazione a quella porzione di vita e di storiche circostanze che era loro sopravanzata. Ragguagli dovuti a una parata di ex persone individue.

Poco più in là, su un’antica facciata di loculi edificata sul finire dell’ottocento, e per questo ingiallita dal secolo e passa che era trascorso, un vecchietto più nodoso dei suoi conterranei e coevi ulivi picchiava ripetutamente il suo bastone sulla lapide di tale Cirone Antonia 1904 – 1991. Con una voce decrepita, come doppiato dall’oltretomba che pure lo accerchiava, la ricopriva di insulti: “Bastarda! Io te lo dicevo e tu non mi hai mai voluto ascoltare. Bastarda di una bastarda!”. Imprecazioni che più che suonare come blasfeme eccitavano l’ilarità dei visitatori più vicini alla scena.

Una scena che Innocenza Sblendorio conosceva a memoria poiché non di una prima bensì di monotona replica trattavasi.

Innocenza, una signora sulla sessantina dagli occhi nero carbone, i capelli grigi occultati da stratificazioni di color ruggine, chioma a tinte fosche, a far visita ai suoi morti era riuscita a trascinarsi per la prima volta in assoluto sua figlia, poco più che trentenne, Vita Maria, castana slavata, la testa oltraggiata dall’alopecia (areata multilocularis), parimenti slavati gli occhi, stirati gli angoli della bocca.

Attraversavano, madre e figlia, i campi uno e due con il loro contenuto di sepolture ben tenute, ben curate: tombe con recinzioni in ferro battuto, invece che una banal lastra di marmo aiuolette fiorite a castella, pungitopi e siepine squadrate di giustezza, epigrafi pretenziose di vite specchiatissime vissute quanto meno nella concordia (mai nella viltà!), nel ben fatto, nell’altruismo, nello spirito di servizio e nella filantropia (mai nella fottuta egolatria!), nella virtù e nella proporzione di forma e sostanza. Innumerevoli le statuette scure di padri pii, alcuni a grandezza naturale.

“Pastorelli di un presepio di ’sto cippo funerario”, si ricordava di aver letto Vita Maria sul Cavalletto, giornalino di provincia su cui si esercitava un cronista locale a suon di articolesse. Così, di questo titolo, Pastorelli di un presepio etc., etc., l’elzevirista aveva voluto fregiare una sua inchiesta su alcuni disservizi del cimitero comunale.

Per la verità, tutto un camposanto ben acconcio, ruffiano di preghiere incise nel marmo, ovali a smalto e pagelline ad alta definizione, ciò nondimeno immemore della voragine che gli correva di sotto. Tutta sovrastruttura. D’altra parte come poteva non essere sovrastruttura questo binomio di tendoni in pvc sorretti da un complicato tirantaggio e uniti da una passerella? Era il fedele calco di uno dei luoghi dove una coppia di ragazzetti qui seppelliti si cacciava nottetempo a ballare fino allo sfinimento. E prima di sfinirsi le sinapsi erano periti i loro corpi, maciullandosi nella più banale delle stragi del sabato notte. Altro che sovrastruttura, la necropoli, l’architetto del comune doveva esserne persuaso: tensostruttura!

Le due donne sfilavano davanti a questo modernariato funerario di torri d’avvistamento, ponti levatoi, fossati del castello, fortilizi, portoni bugnati, conocchie, gasometri ed ex gasometri.

“Lo vedi quel cannone?”, chiese Innocenza a sua figlia indicandole un pezzo d’artiglieria tipo guerra di secessione americana. “Lì ci sta quel tuo compagno della scuola media.”

“Lorenzo!”, realizzò subito Vita. E si ricordò di come le capitò una o due volte, intorno ai quattordici anni, di essere arrivata insieme a lui, in due su un Ciao, fino al mare, a primavera appena iniziata, nell’ansia di essere i primi dell’anno a fare il bagno. E lei il bagno però non lo fece, nonostante le insistenze di Lorenzo che la richiamava con larghi gesti delle braccia già immerso nella broda adriatica. Quello gridava dài, che aspetti, vieni o no?, che sei venuta a fare sennò?, e lei che non se la sentiva proprio di scoprirsi, di mostrarsi mezza nuda. Anzi, era stata certissima sin dalla partenza improvvisata in motorino, che sarebbe rimasta seduta a un chiancone proteso nel mare e niente più. In fondo le bastava essere lì, a guardare Lorenzo felice come un bambino che giocava a sbattere le mani sull’acqua e a provocare la spruzzaglia.

Era una delle tante amicizie che Vita non aveva saputo o non aveva voluto coltivarsi. I loro destini presto si biforcarono fino a perdersi completamente di vista, e più tardi si seppe che Lorenzo s’era fatto partire la tettoia. Un tardo figlio dei fiori, capellone e sudicio, buttato a torcersi nell’alcol e nelle canne – girava voce che sapesse farne di sesquipedali - fino a pagare a caro prezzo la rincorsa al sogno di un’esistenza da mito del rock.

“Si soffocò nel suo stesso vomito”, disse Vita.

“Come il polipo si cucina nell’acqua sua stessa”, ne scolpì l’epitaffio Innocenza.

Ecco le due donne passare oltre tutto questo, muovere verso il confine perimetrale, imboccare la breccia aperta nel muro di cinta e approdare al campo ter.

Il campo ter era l’orrore che giungeva come un forcone che si pianta nello sterno.

Adibito poco tempo prima, strappato alle campagne adiacenti, rettangolo tre di sepolcri abborracciati, disposti in file irregolari a dir poco, all’ombra stenta di mandorli, ulivi e fichi. Mica pioppi o cipressi. Erbacce, cespugli, rami secchi e spine: una densità arbustiva da favorire le nidificazioni della peculiare avifauna del luogo; un microclima da sottoporre a vincolo idrogeologico. Persino paludoso in alcuni tratti, il campo.

Un cumulo di frasche da scostare magari con un piede costringevano ad un avanzare circospetto fino a che non si schiudeva allo sguardo, finalmente, l’allocazione di Ivano Germinario: un’approssimazione di tomba che gridava ancora vendetta.

“Hai visto dove me l’hanno messo?”, gemette la madre.

Nell’assenza di una manifesta reazione, si mise a fissare il volto di Vita Maria nell’attesa di vedere tracciarsi nella sua espressione un qualsivoglia effetto. E però dell’indecenza che indignava sua madre a Vita Maria non fregava proprio.

Di suo padre non affiorò granché di ricordo. Vita si sforzò di capire che effetto le stava facendo fronteggiare il sepolcro del papà per la prima volta da quando era morto ma non le riuscì di pensare a nulla di particolarmente significativo. Anzi, per lunghi minuti non le riuscì di pensare proprio a niente. Solo sentiva abbastanza chiaramente qualcosa bruciarle le labbra. Niente di cui sua madre potesse accorgersi. Allora si mise a riconsiderare meglio l’impercettibile evento: era qualcosa che tornava a bruciarle le labbra. Tornava. Da un passato remoto e dolce. Dal sogno della bellezza. Dal passato da sogno remoto in cui, forse ancora bambina, il padre le diceva di essere bella, bellissima. Con le sue dita maschie tra i suoi capelli ancora tutti al loro posto, lui la rassicurava della sua bellezza. Nonostante il parere contrario di molte delle sue amichette passate, lui si faceva garante dell’avvenenza di Vita. L’unico a farlo.

Adesso non sapeva se era per il rigurgito di quegli scampoli di vita con Lorenzo, o per la musica riveniente dalle parole dell’amato padre, che i Pooh si erano messi a suonarle nella testa, a parlarle del mondo fuori, dei miei pensieri, e io dovrei … ma spiegami contro di me che cos’hai … aspettare che una donna diventassi tu … noi due nel mondo e nell’anima … la verità siamo noi.

Le piacevano i Pooh, ascoltava solo quelli. Poi a profusione le vennero in mente quei pantaloni Uniform che non si sarebbe mai levata sugli scogli a mare, una colonia di sorcioni che sfilava e scompariva in un anfratto nella roccia, il suo conseguente inorridire, il papà che le gonfiava i braccioli e i primi depilé.

Da quando era morto Ivano, Innocenza si era recata, imponendoselo, ogni mattina al cimitero. E nel giro di qualche mese le era diventato un luogo familiare come pochi. Avrebbe potuto percorrere i viali ad occhi chiusi, recitare a memoria la sequenza dei nomi sulle tombe, identificare ogni nuova inumazione; avrebbe saputo individuare all’istante il minimo mutamento nel paesaggio che le era ormai consueto, quale poteva essere una smuratura per estumulazione da concessione scaduta. Anche di questo campo ter, discarica abusiva di quattr’ossa, intollerabile nello stato in cui si offriva al visitatore, conosceva ogni buca e ogni sentiero percorribile, sapeva dove mettere i piedi per schivare rovi, spine e stagnazioni putride, vi si muoveva sicura e agile. Il camposanto era il suo elemento, il suo luogo d’elezione anche col terreno in estreme condizioni. Orientamento spiccato e praticità di movenze acquisiti rapidamente, braccia e gambe frenetiche ma determinate, mai dei movimenti a vuoto, essenzialità dei gesti, sguardo schermato dalle lenti fotocromatiche incastonate in una montatura circolare di grana grossa, gambaletti neri al polpaccio che lasciavano scoperti pochi centimetri di carne pallida sotto il ginocchio, come una promessa di oscenità. Nelle sue operazioni un’esattezza che Vita Maria non avrebbe mai sospettato. Portava dei manicotti di pelliccia sulle braccia ossute e spigolose, manicotti che combinati col suo golfino a ricami animalier gialli e neri, apparivano come le ricoperte di fitta peluria di un insetto volatile.

Dopo aver rinunciato a capire cosa passasse per la testa di Vita si rimboccò i manicotti, estrasse il ciuffo di crisantemi abbastanza patiti dal portafiori, stese per terra un foglio di giornale con la foto di Bill Clinton in primo piano per posarvi i gigli freschi appena comprati, cavò via il coppino di rame dal sostegno e andò spedita verso la ciambella del tubo di gomma dove attingere l’acqua che doveva servirle per il ricambio.

L’operazione dell’avvicendamento floreale era ormai stata completata e Vita Maria era ancora lì, indecifrabile, a fissare uno scempio di sepoltura muta, appena l’iscrizione del nome e della data di morte, senza neanche la foto. Di Ivano.

La madre trovava di non avere altro da fare. Decise che non c’era più niente altro da fare: non pulire, non aggiustare, non rimboccare le coperte come talune di là, nel cimitero legale, sembrava facessero. Poiché prendersi ancora cura di quel sepolcro significava solo fare finta.

“Meh, ciàaaaa …”, biascicando prostrata salutò il marito e girò sui tacchi risoluta ad abbandonare il campo ter.

Più lenta nei riflessi, Vita indugiò ancora qualche istante davanti al padre, rendendosi conto di non avere più tempo di pregarlo, e neanche di salutarlo come meritava. Si voltò a guardare la madre che a passo spedito si reinfilava nello squarcio del muro e si dirigeva verso il settore soppalcato.

Innocenza credeva di intuire lo spiazzamento che doveva aver colpito Vita Maria venuta per la prima a trovare il papà sepolto. Era convinta che fosse impossibile restare indifferenti. Attoniti e senza parole magari sì, ma indifferenti proprio no. Non si poteva non trovare rivoltante quell’avvilente sistemazione, per quanto provvisoria – almeno così le avevano detto i funzionari del comune.

“Sepolto in terra sconsacrata”, la fomentava poi Corrado. “Si è attentato al nostro diritto funebre. Seppellire papà in una tale discarica …”

E lei più rimuginava più non si poteva bere il sangue. Elucubrava su questa ricovera morti: un’insolenza che avrebbe finito col costringere Ivano a vagare come un’anima dannata.

“Non si propizia così il suo viaggio nella vita ultraterrena.”

Innocenza aveva da ridire su molte delle cose che riguardavano Corrado, ma non su queste parole, non sulla posizione che suo figlio aveva preso a proposito della sistemazione del genitore.

Corrado era alla ricerca di un suo personale modo di guardare alle cose e impiegava in ciò un linguaggio talmente stereotipato da sembrare anomalo, finendo coll’alimentare un sentimento rovinoso in seno alla madre. Infatti, c’era del morboso in quello che si dicevano l’un l’altra, in quello che Innocenza tornava a riferire incessante e ossessionante pure a Vita: “Resterà tra noi il dannato padre vostro. Come un fantasma. E resterà per tormentarci fino a che non avrà avuto degna sepoltura. Fino a che noi, noi non avremo trovato il modo di farci rispettare”.

“Se lo lasciavano a te almeno ci facevi una simpatica tovaglietta di plastica!” Le gridò dietro Vita Maria presagendo le congetture materne e a queste reagendo platealmente.

Innocenza si arrestò di colpo.

“Ma che dici?” S’irrigidì. “Ma sei normale?” disse girando con veemenza su se stessa e sottolineando rabbiosamente la normalità. Restarono qualche secondo a fissarsi con occhi pazzi entrambe, anche se quelli di Innocenza non si vedevano, nascosti come erano dalle lenti affumicate.

“Dài, muoviti!” Riprese il suo cammino. Aveva subito recuperato il suo severo contegno, nella convinzione di dover sorvolare su quelle strambate filiali. Però, però, queste strambate cadevano sempre più frequenti, e sempre più popolate di grottesco, sempre più vibranti di delirio,.

“Andiamo a salutare i nonni”, disse Innocenza senza più voltarsi.

Come un imenottero si librava da una carcassa per planare su un’altra.

Dai nonni ci stava anche l’ascensore per salire alle due corsie soppalcate che, viste dall’alto, formavano un’acca in stampatello maiuscolo. E il tratto centrale che divideva le due gambe più lunghe corrispondeva alla bocca con la rampa delle scale. Queste scendevano fino anche sotto terra per altri quattro metri dove ci si poteva perdere in un dedalo ombroso e gelido, agglutinato di celle e volti negli ovali e luci perpetue a illuminare le traiettorie dei percorsi possibili.

Al piano più alto invece un lindore altoatesino sul quale splendeva pure il sole, sebbene fosse solo quello sfilacciato d’autunno.

L’ossario: un sipario di loculi dalle dimensioni ridotte, ben curato, pulito anche per terra, colori vivaci di fiori tumidi o plastificati a ravvivare la lunga fuga prospettica delle due pareti; pareti alte, ciascuna delle due costituita da venti file di celle, foto negli ovali e luci perpetue. Qui stavano gli Sblendorio. I coniugi Sblendorio, in una fotografia in bianco e nero.

La scala semovente si afferrava dalle sue impugnature e si faceva scorrere parallela ai morti fino a quando non era in corrispondenza del proprio caro. Davanti ai suoi genitori così composti e ben allineati, diversamente da come le accadeva presso suo marito Ivano, Innocenza riscopriva puntualmente quali e quante preghiere snocciolare.

Al termine delle sue orazioni, sempre rivolta ai suoi genitori, quasi invocando un loro aiuto, aggiunse questa volta qualcosa di strano, una chiosa inquietante.

“La vedite a chesse?Ce tene ‘ne brutte destine, chiamataville!”.

Che tradotto in lingua intellegibile era: “Vedete questa figlia mia? …Valutate: se ha un brutto destino, chiamatela a voi”.

Innocenza Sblendorio, impaniata nella sue vesti, la testa affiorante da un mare di pelo che ondulava al soffio di un vento demente, e Vita Maria Germinario, insabbiata in maglina fluttuante, adesso se ne stavano venendo via dal fastello di croci.

Sull’autobus che le riportava verso casa la ragazza tentava una protesta.

“La preghiera potevi farla per te.”

“Mica ho detto qualcosa di male”, diceva Innocenza, malcelando il suo stesso nome.

“Come se fossi una fallita.”

“Ti stai sbagliando, mi dispiace ma ti stai sbagliando.”

“Come se tu non fossi una fallita.” Vita lo disse squadrando la madre seduta al suo fianco, con occhi selvaggi.

“Vitina, ti sto a dire che non lo devi neanche pensare.”

“Che cosa?”

“Che io, tua madre, nientemeno!, possa dire una cosa per il male di mia figlia.”

“Ma lo dicevi per te. Perché devi dire una preghiera per gli altri? Ma guarda questa, guarda … ma stai un po’ zitta”

“Non voglio sentire più niente. E basta! … Mo’, lei deve dire a me ’stai zitta’. Ma vedi di stare tu un po’ zitta. Ma ti sei vista? È così che si viene vestiti? E i capelli, i capelli, cristomoi!, cosa aspetti ad aggiustarteli? Datti una riguardata, Vitina, che io mi vergogno a uscire con te.”

“Che poi, scusa, che differenza ti fa che sia seppellito in un posto anziché in un altro.”

“Se non sai che cosa è adeguato al nostro rango è meglio che te ne vai con la madonna.”

“Vattene tu con la madonna!”

Stava diventando una lite furiosa. Nessuna voleva smetterla di replicare: Vita Maria continuava a opporsi borbottando che non capiva, proprio non capiva, mentre Innocenza era talmente fuori di sé che se non fosse stata su un mezzo pubblico, invece di stritolarseli tra i denti gli insulti a sua figlia, le sarebbe andata sulla voce, e avrebbe ruggito lei: “Zitta! Carogna! Stai zitta, brutta carogna!!!”