Un cancello marcio di ruggine annunciava un lungo viale ottenebrato da una giungla di enormi piante abbandonate all’incuria più completa, rovi sterpi e tralci invasivi, in mezzo a cui spiccavano dei gotici mastodonti del regno vegetale: tre giganteschi pini neri lasciati a levitare negli anni e a spandere ombra tutto attorno. Il sole alto sui borborigmi della vita cittadina, fissando una provincia dalle budella in disordine, la vedeva bene questa macchia scura di vegetazione che impeciava la terra e la forava come un buco nero.

La villa era cacciata in fondo al viale e scopriva, di tanto in tanto d’in tra il fitto frascheggiare, i suoi due piani di intonaco cascante: due scatoloni di cemento posti uno sopra l’altro in maniera sfalsata, non combacianti. Il primo, un piano rialzato, era disabitato e mostrava tapparelle abbassate di sghimbescio, sfondate in più di un punto, e altre finestre coperte di assi inchiodate. I tre vivevano quindi solo al piano superiore di un malmesso edificio in fondo ad un viale ai lati del quale premevano altre ville: case basse, imbiancate a calce più compatta, edificate durante il ventennio fascista e che spesso, a voler frugare con spirito d’inchiesta, risultavano appartenenti se non a una stessa persona, almeno almeno a una stessa famiglia. Tutte queste davano sulla strada coi giardini e con i cancelli grandi, una strada che disegnava un impercettibile curvone parabolico e veniva tagliata da stradette in cui, per il solo fatto di esser laterali e minori, pareva che fosse consentito a certi di posteggiare le macchine nel bel mezzo della sede stradale. Se altri aveva da passare con la sua, di macchina, accettava come costume ormai consolidato la seccatura di andare a citofonare ai vari interni del circondario per chiedere di chi fosse l’autovettura che ostruiva il passaggio e se per favore potevano spostarla prima che gli saltassero i cinque minuti. Allora veniva fuori uno che chiedeva scusa, hai ragione, o uno che ti diceva solo un minuto, rientrava nella sua casa e tornava dopo un quarto d’ora, come se nulla fosse, oppure ancora uno più incazzato dell’automobilista bloccato che, inalberando punte perotti tatuate a tutto corpo, si metteva a ringhiare: “A ccioine a’na zembaje le cinghe meneute ah!? A taje o a maje?” E dopo aver agitato minacciosamente mani inghirlandate da ditone nere da gommista faceva segno che potevi andare adesso, scasare, sì però a marcia indietro.

Su un lato della via principale, per un tratto di cinquanta metri si susseguivano casa di Beatrice, il viale più profondo di casa Germinario e un’altra casa bassa di un colonnello dell’aeronautica in congedo. Quindi una traversa che chiudeva l’isolato e ne apriva un altro. Quest’ultimo cominciava con una palazzina degli anni sessanta disposta ad angolo: sei piani che riuscivano a guardare proprio su casa Germinario. La palazzina vegliava su casa Germinario. Dal quarto, quinto e sesto piano si poteva godere un’ottima visuale dell’abitazione di Innocenza in ragione del fatto che la casa di questa non era allineata a quelle altre che pure si compiacevano di dare l’uscio direttamente in strada: grande comodità questa quando passa la processione e la puoi guardare anche da dietro i vetri. Casa Germinario era molto più indietro rispetto alle altre, cacciata in fondo al budello alberato, come se strizzata dal cemento tutto attorno avesse trovato una via nella vena finendo per sfogarsi più giù, nei recessi dell’alveo, nascosta alla strada dall’antistante, orrido parco. Essendo quindi arretrata di quei buoni trenta metri rispetto al fronte delle altre abitazioni, non coperta da quelle, rientrava perfettamente nel campo visivo di chi, guardando dai piani più alti della palazzina anni sessanta, si ritrovava a imbattersi negli spostamenti dei membri della famiglia che l’abitava.

Con le belle giornate ormai alle spalle quella dimora trasaliva in tutte le sue colonne portanti ad ogni gettata di tramontana. Rabbrividiva in ogni suo mattone e ne trasmetteva l’inquietudine all’osservatore del quinto piano della palazzina ad angolo: un ragazzo che appostandosi dal pomeriggio alla scrivania presso la finestra, spiando tra le fronde dei pini fino a sera, poteva scorgere di tanto in tanto le sagome dei Germinario nel chiarore proveniente dai vetri della cucina di quella casa di fronte. E quasi gli pareva di sentire l’acciottolio delle stoviglie o il gracchiare di un Amstrad ventotto pollici sintonizzato sempre su una rete locale che trasmetteva quotidianamente, in una lunga striscia pomeridiana, il programma La morte in differita.

Poteva vedere in lontananza le figure di quelle persone sfilare dietro la loro finestra, a volte affaccendate, altre più oziose. Spesso erano al telefono: una donna piuttosto anziana dai capelli a tinte fosche, una più giovane ma con una brutta cera che dava l’impressione di essere complessivamente piuttosto male in arnese. Sempre una sigaretta tra le dita aveva la ragazza, un po’ discinta e un po’ con pochi capelli. Più raramente ci capitava il ricciolino alla finestra quando anche a lui serviva di telefonare. Dovevano aver collocato il ricevitore proprio sul davanzale interno.

“Ora la devi chiamare”, disse mentre si portava la tazzina di caffè fumante alla bocca.

“Tu dici?” Corrado si rigirava il cellulare tra le mani coi gomiti poggiati sulla tovaglia plastificata a motivi di fichi spaccati .

“Assolutamente, ragazzo. È l’ora.” Guardava fuori dalla finestra. C’erano un furore di pini sbattuti dalla prima tramontana dell’autunno.

“È giunta l’ora di rifarlo. È questo che vuoi dire?”

“Ragazzo, dèstati. Devi riprovarci. Fanno sempre così.” Il vecchio seduto al tavolo della cucina, di fronte a Corrado, aveva dei modi bruschi. “È abbastanza normale. Ne so molto io, tante ne ho sentite, fidati. Fanno sempre così, è un modo per stilare da subito, da uno a dieci, la pagella di quanto si sentono desiderate. E loro vogliono dieci, sicuro e certo che vogliono dieci sulla scala dell’appetenza. Tu, ragazzo, ora come ora sei a nove. Non devi mollare proprio adesso. Valle sotto ancora qualche volta, almeno un’altra, e fai dieci.” Indicò il numero dieci con tutte e due le mani aperte, agitandole e rivolgendo a lui i palmi.

Corrado s’era convinto di doverlo stare a sentire. Un brivido di eccitazione gli si scaricò giù dal collo rameggiando per il resto delle ossa. Ma poteva essere anche il freddo. Le ore di insolazione erano diminuite, il bel tempo del giorno prima si era sfrangiato con la notte e le prime nuvole, e adesso, alle quattro del pomeriggio le ombre si slargavano oleose e buie come le potenze buie. La temperatura si abbassava ora dopo ora.

“Va bene”, fece Corrado rassegnato. “Al massimo conosceremo il disinganno dell’amore.”

“Eeeeh, già all’amore sei arrivato?” Il canuto minimizzò quell’espressione pomposa. Il fatto era invece che Corrado era proprio arrivato al disinganno. Alla D di disinganno

“Muoviti, fai quella telefonata.” Si stirò le vesti sulle gambe per poi alzarsi verso la caldaia. La predispose su inverno. Attraversò la cucina, trascinandosi nei suoi sandali. Dentro i sandali i piedi erano avvolti da calzini bianchi. Passò dietro Corrado, curvo, coi gomiti sul tavolo e le dita che stavano appena decidendosi a comporre un numero sulla tastiera del cellulare.

“Giusto. Chiama dal tuo cellulare. Non sia mai che poi tua madre venga a farti delle storie per aver chiamato dal fisso. E poi è meglio così comunque.” Un bonario scappellotto sulla testa riccioluta provocò una scrollata di forfora sulle spalle di Corrado. Il vecchio raggiunse la parete opposta a quella della caldaia e fece scorrere la ghiera del termostato fino a che la freccetta non indicò i ventidue gradi. Uscì dalla cucina per non interferire nella conversazione di Corrado e, a maggior discrezione, chiuse silenziosamente la porta dietro di sé. Andò alla stanza del ragazzo e per poco non inciampava nel plastico di una stazioncina dalla quale si dipartivano un paio di binari che però presto si interrompevano, monchi. Sul comodino c’era lo Zingarelli e un segnalibro tra le pagine settecentodue e settecentotre: disingannativo / dislalia. Disingannativo, disingannatore, disinganno. Poi disingranare e subito dopo disinibire: togliere le inibizioni. Un moto di soddisfazione salì dal suo sangue in perenne ebollizione e un sorriso si allentò nella regione tra le gote cave e la mascella barbuta. Un manto di barba dura, non uniforme, non troppo cresciuta, non lanuginosa, non tutta bianca. Corrado aveva pensato più volte a quelle chiazze di peli duri sulle guance del vecchio, le associava alla chioma ingiuriata di sua sorella Vita, quella testa spelacchiata in più punti, lanuginosa, anche se su di lei i capelli, laddove resistevano, erano certo più lunghi e non certo duri come quelli di una barba.

Smorto. Odore di sudore smorto. Puzza di smorto. Marcella non avrebbe saputo dirlo diversamente. Anzi, avrebbe dato una spiegazione ancora più oscura se avesse lasciato libero corso al gergo paesano: come ti posso dire, sai, quella cosa di chiuso, di robe accafagnate, quell’accafagnamento …?

Appena arrivava la chiamata di Corrado rincrudiva in lei quella sgradevole sensazione, una cosa che proprio non sopportava. Nelle sue intime cavità insorgeva un profondo sentimento di ripulsa, quasi che il puzzo tornasse a molestarle le vie respiratorie e, così facendo, azionasse un dispositivo automatico di rifiuto di chiamata.

Marcella rifiutava le chiamate di Corrado.

Giorni dopo il fallito tentativo di avvicinamento che c’era stato sul lavoro le era capitato di incontrarlo un’altra volta per strada e Corrado aveva ben pensato di informarla: “Sto andando a far provviste”. Invece di fare banalmente la spesa e parimenti banalmente invitare qualcuno a cena, lui parlava di provviste e di desinare. Così la traiettoria che dal sentore delle provviste conduceva alla certezza di smorto olezzante, passando per un improponibile invito a desinare, sbatteva infine contro un banale rifiuto. Contro l’opponibilità di un pollice sul tasto rosso di un telefonino.

Costringeva Corrado a incassare chiamate rifiutate da uno scatto di ripulsa. E lui nemmeno se l’immaginava che quella chiusura fosse addebitabile allo smorto che si portava in collo né tantomeno al suo parlare avulso. Quel suo parlare era la foce che finalmente si apriva a mare di un siero tossico lasciato colare lungo tutto il corso delle sue controrotaie mentali, passando sulle irregolarità del profilato, aggirando cerniere e problemi di conduzione elettrica. In parte era anche il frutto della consulenza di quel vecchio che gli teneva compagnia, il quale ricavava qualche suo discreto piacere dal puntellare piuttosto che dal corroborare quando non dal contraddire in radice le convinzioni che Corrado si andava formando sulla vita e su come questa dovesse essere agita. Per tutto ciò, quindi, Corrado non ebbe, né mai prima aveva avuto, né mai avrebbe avuto in seguito alcuna percezione dello strano risuonare che le sue parole acquisivano negli orecchi del mondo normale. Parole come desinare, provviste, conseguire un titolo, consorte e quant’altro avevano un potere enorme sulle persone inquadrate o tutte di un pezzo, un potere malefico, tra l’altro a totale scorno di Corrado: il potere della parola che, per il solo fatto d’essere inconsueta e fuor del contesto, fa dubitare dell’igiene mentale di chi la proferisce. Il potere delle parole che mettono paura, che terrorizzano, che inducono chi le ascolta a guardare l’interlocutore di sbieco, con circospezione, sulla difensiva, con l’ipotesi della fuga sempre tenuta da conto, cioè ben rimpiattata nell’anima come un demone pronto a balzar via.

Vita Maria fumava in piedi mentre guardava La morte in differita nel televisore sul mobiletto in noce quando Corrado entrò nella cucina mentre ancora si sistemava la patta dopo essere stato in bagno.

“Puoi lasciarci soli, per cortesia?”, le disse lui.

Vita Maria sgranò gli occhi, schiacciò la sigaretta appena accesa tutta nel posacenere e uscì dalla cucina sfilando davanti a Corrado, continuando a fissarlo con quello sguardo sorpreso e angosciato insieme.

Al fruscio dei movimenti di Corrado il vecchio si risvegliò improvvisamente.

“Comunque”, disse Corrado, “ho pocanzi effettuato quella chiamata.”

“Ah, ah, bene. Dimmi, allora.”

“Ho interrotto la comunicazione subito dopo aver inoltrato la chiamata. In una frazione di secondo sono stato assalito da un interrogativo inquietante.”

“Vai avanti.”

“Ho pensato a cosa sarebbe successo se dall’altra parte avessi trovato una persona ben disposta, pronta a una relazione stabile con il sottoscritto.”

“Embè?”, s’irrigidì il vecchio.

“Ho intravisto uno scenario terrificante”, disse Corrado immaginando una inutile, anzi nociva sovrapposizione di percorsi.

“Ma va.”

“Vero è che nella vita bisogna svoltare, ma io sento fortemente questo pericolo.”

“Scusami, benedetto ragazzo, ma quale pericolo? Non ho mica capito.”

“Quello di dover bussare a denari.” Fece una pausa, come per figurarsi la situazione. “Cosa che mi mortificherebbe. E farlo con mia madre, poi …”

“Mi stai dicendo che vuoi aspettare ancora?”

“Credo che sia giusto prima professionalizzarsi nella vita e io non ho ancora adempiuto del tutto a quello che considero un precetto essenziale.”

“Precetto preesistente alla famiglia, è vero, Corrà?” disse il vecchio a coglionare.

“Senz’altro preesistente.” Corrado non colse.

“Ti stai buttando via.”

“Credo di aver fatto la cosa più giusta, invece.”

“Bah!”, dubitò il vecchio stirandosi le vesti.

Corrado si accoccolò in uno scenario di tratte ferroviarie che potevano e dovevano viaggiare senza alcuna necessità di incrociarsi, in maniera del tutto separata. Anzi avrebbe tratto giovamento da questa situazione: svolgendo i due percorsi tranquillamente indipendenti uno dall’altro la costruzione e la manutenzione del suo diorama ne avrebbe sicuramente beneficiato.

Andò ad armeggiare dietro la testa del vecchio. Gli sfilò come di consueto la sciarpa rossa che, ripiegata più volte, veniva adoperata come guanciale.

“Senti, ragazzo, dove vai ora?”, si informò quello accennando a rilassarsi nuovamente .

“Esco, faccio un giro in macchina.”

“In cerca di qualche altra coniglia, spero.”

“Ho delle provviste da fare.”

“Sei un chiancone, lo sai questo, no?

“Mi servono delle lime.”

“Lime? Per le unghie? Non mi dire …”

“Devo rastremare.”

“Le unghie?”

“Il fianco interno delle mie rotaie.” Ma pensò anche che fosse pure arrivata l’ora di una buona manicure. Non gli sarebbe dispiaciuto farsi riaggiustare le mani visto che taglierine e aghi utilizzati per la costruzione degli scambi gliele stavano rovinando.

“Torni presto?”

“Stavo pensando ad un giro largo.”

“Tanto per sprecare benzina.”

“Lo sai, mi ascolto la radio in onde medie mentre guido.”

“Senti, prima di uscire, ti posso chiedere una cortesia?”

“Per servirla”, scherzò un po’ stoltamente Corrado.

“Ho freddo. In questa casa fa freddo.”

“Strano, il riscaldamento l’hai acceso tu pocanzi.”

“Sì ma io non riesco a scaldarmi.” Si strofinava le mani e ci soffiava sopra.

“Tempo al tempo.”

“E poi c’è quest’altra cosa: che mi si spacca la pelle sul dorso delle mani. Si aprono taglietti sulle nocche, guarda qua, guarda. Tutte arrossate le mani.”

“Sono alterazioni cutanee. Visto che qui la temperatura è sempre adeguata ai mutamenti climatici non saprei a cosa imputarle.”

“Non sei sincero.”

“A ben considerare propenderei per problemi di circolazione.”

“È possibile. Non sono altro che un vecchio.”

“Devi assumere polivitaminici.”

“Stammi bene … Non ne prendo medicine. Mai prese, non comincerò adesso per due geloni delle mie rotaie.”

“Può anche essere un fenomeno dovuto ad escursioni troppo violente dell’organismo tra una bassa e un’alta temperatura ambientale. Quando vieni dall’esterno e ti vai a lavare le mani non devi usare solo l’acqua calda. Devi dosare meglio.”

“Ma io questo lo so bene, non sei tu che vieni a dirlo a me, ora.”

“E allora?”

“E allora, e allora … secondo me è proprio che c’è qualcosa nell’acqua che non va. Non so, è come un’acqua troppo dura. E rovina le mani. Dovreste far venire qualcuno, fargli dare un’occhiata alle tubazioni.”

Corrado impiegò ancora qualche minuto per spiegare al suo amico come l’acqua dura poteva essere dovuta alla presenza di calcare nelle tubazioni o come poteva anche darsi il caso di un’alta presenza di nitrati nell’autoclave. E divagando aggiunse che, in taluni casi la ragione di un’alta presenza di nitrati nelle falde acquifere, per fare un esempio, era da individuare addirittura nella presenza di qualcosa in putrefazione; perché la terra, di per sé, è una combinazione di fosforo, azoto e potassio. Se vengono rilevati nitrati allora la terra è in pericolo: putrescenza. Carcasse.

Corrado sapeva di queste cose perché temeva l’acqua ad alta concentrazione di nitrati come neanche l’australopiteco il fuoco primordiale ed era per esorcizzare le sue paure che si metteva anzi a pontificare che per certi aspetti era un bene questo imputridimento perché bisognava smetterla di disorientare il sistema immunitario attraverso un’igiene spinta, poiché i loro corpicini - proprio così li chiamava: i loro corpicini - sono abitati da anticorpi, ai quali se non si dà qualcosa da aggredire, ti mutano dentro e ti espongono a eritemi e dermatiti e reazioni allergiche.

“Sì, va bene”, concluse il vecchio, “ma adesso, prima che te ne vai, non è che mi puoi procurare un paio di guanti di lana?”