Ricondotto il titolo all’esperienza visiva dei suoi scatti fotografici, si vedrà come si tratti di una serie che mette in scena la prepotente tensione tra la volontà di ancorarsi alla realtà, alla cosalità, agli oggetti concreti della vita quotidiana, del quotidiano proprio, da un lato, e la necessità, direi anche l’urgenza, sul polo opposto, di distaccarsene, di sollevarsi da essi (oggetti quotidiani): quasi che avverta, Angela Stufano, l’insensatezza dell’esistenza degli stessi. Il risultato è “in between things, come un naufragio tra le cose (nelle quali cose sono compresi quei dettagli minimi e insignificanti cui lei stessa fa cenno), una deriva non priva di una certa dolcezza, uno scivolamento tra le cose che si fa appunto omaggio all’attesa, ai vuoti, ai silenzi. In quest’ottica, la prospettiva sbilenca diviene un dato di necessità: l’unica possibile da parte di chi osserva e sceglie il suo soggetto fotografico.

Ma Angela Stufano ci dice anche che protagonista, nei suoi scatti è non la cosa, non il dettaglio, non il personaggio raffigurato, bensì la transitorietà di tutto questo. Si tratta, probabilmente, di una transitorietà, di una condizione di passaggio, di una provvisorietà che, in qualche modo cancella le identità degli oggetti ma, si direbbe, soprattutto cancella quella degli individui, data la prevalenza di scatti in cui la figura umana è colta di spalle. Quasi a volerle negare un volto, cioè la riconoscibilità immediata.

Laddove invece un volto umano viene colto frontalmente rispetto alla macchina, lo sentiamo e vediamo timoroso, vergognoso, ritroso e comunque sempre tale da non farsi ritrarre nella sua pienezza.

Direi che questa tensione, che si annuncia anche come promessa di tormento e lacerazione, è il cruccio e l’oggetto di indagine prediletto di Angela Stufano. La centralità di questa dualità, il continuo interrogarsi e oscillare in questa bipolarità, è il segno e il tratto dell’artista.

Le rare volte che una donna appare col volto appena un po’ più visibile a rasserenato, non si esita a sentirlo come preda di un’ambigua e forse anche tenebrosa serenità. È il caso di un’immagine al cui centro c’è una donna alla quale potrebbe stare accadendo di tutto. Se vi soffermate sulla sua posa plastica, vi domandate di che si tratta. Di ascensione? O di un precipitare? O non proprio di una sospensione? E il vestito che indossa, sul pallore dell’incarnato, potrebbe benissimo essere un vestito funebre, un sudario, quasi a voler indicare un destino imminente ma anche uno sguardo luttuoso, addolorato come addolorata, davvero acconcia come una madonna addolorata, sembra essere la protagonista di questo scatto.

Al finale, o al principio, questo magnifico murale trompe l’oeil. Raffigurante un evento che potrebbe essere natività e visitazione, annunciazione e dono. Qui l’illusione dell’occhio dello spettatore, l’illudere cioè l’occhio di colui che guarda, stordendolo di e tra realtà e rappresentazione, si radicalizza del tutto. Ed è qui che, con ogni probabilità, ha inizio questo naufragio e questo derivare, nel senso dell’andare alla deriva, di cui sopra. Lo scivolamento dal vero al figurato, dal pieno al vuoto, dal concreto all’impalpabile, dal presente all’assente.