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ITALIA. MODUGNO. IL TESTACODA DEL BICEFALO (da SudCritica)

di an. bu.

Drago a due teste FFIII

Il caso di un partito a guida bicefala che spadroneggia ovunque in Italia, a iniziare dal governo centrale, infierendo sulla Costituzione. E il caso di una città del meridione d’Italia, più o meno piccola, in cui è successo, un anno fa, che le ‘amministrative’ le abbia vinte, per una volta, la Costituzione. Qui, al partito bicefalo tocca “giustamente” e coerentemente opporsi; qui quel partito si agita spasmodicamente per non farsi prosciugare della sua sostanza vitale e si applica alle questioni locali seguitando a infierire sulla Costituzione. Perché la Costituzione, non avendo riguardo per gli affari di clan, disgraziatamente per quel partito, non può avere riguardo per i suoi finanziatori.

Perché governare un paese come Modugno secondo legalità costituzionale significa adoperarsi per recuperargli uno stato di diritto. Questo è un programma (politico) la cui attuazione - già abbondantemente avviata ma sempre sul punto di essere interrotta da appetiti famelici - non si veste di insegne sfavillanti. Piuttosto, invece, questo programma va silenziosamente rimuovendo pratiche costumi e simboli di un passato, incostituzionale a dir poco, che ancora vive in molti aspetti del presente stato di cose. E man mano che faticosamente si ripristina la legalità costituzionale a Modugno, processi residuali e perduranti, di tenebrosa natura, tentano colpi di coda, accelerazioni improvvise, soprassalti e assalti veri e propri, per riprendersi la cosa pubblica e tornare ai bei tempi indimenticabili in cui la cosa pubblica veniva spremuta, prosciugata, a lungo impunemente, per fare così la fortuna di pochi. Si tratta del partito dell’ancien régime, sedicente riformista in tutto il territorio nazionale, furiosamente restauratore in quel di Modugno e in qualche altro angolo della nazione in cui magari non gli riesca di prevalere. Un partito bicefalo e proteiforme, spregiudicatamente versipelle, e sol per questo capace di affermare tutto e il contrario di tutto nelle sedi assembleari istituzionali in cui sarebbe chiamato a fare politica, dal Parlamento italiano ai vari consigli regionali, provinciali e comunali. Ma ogni aggettivo è sprecato se non si dice a chiare lettere che più che di un partito politico qui si parla di un potere oligarchico, tanto più smanioso e rabbioso quanto più dal paesaggio, da Modugno per esempio (nel quale ha esercitato la sue prepotenze e tuttora vorrebbe esercitarle), vanno scomparendo finanche i simboli di quel suo potere.

Il partito-idra, espressione del potere oligarchico, ritiene generalmente se stesso sciolto dalle leggi e, nella presunzione di sentirsi il maggior conoscitore delle leggi non scritte, più intime e profonde della sua comunità, promuove un’idea di comunità anch’essa sciolta dalle regole. Si propone così come unico depositario delle formule “per il bene comune”, confidando con ciò di poter dettare ai suoi sudditi - ai quali vien fatto credere di essere parte di una grande famiglia - la costituzione che più gli aggrada, cioè quella che, in realtà, meglio soddisfa l’interesse dei clan. Il rapporto diretto suddito-sovrano che così si vuole reiterare, dovrebbe rimuovere le istituzioni, smarrirle finché non se ne vede più l’origine. Il patto associativo originario, la Costituzione, sostituito con promesse, scorciatoie, espedienti.

Promesse, scorciatoie, espedienti adottati e accettati finora senza lungimiranza alcuna, che hanno permesso ai soliti pochi di spolpare il paese.

In effetti quel potere oligarchico quando indossa il vestito buono della politica sale in cattedra per impartire la seguente lezioncina: “Che c’entra il rispetto della Costituzione? Quello è scontato, bisogna invece fare le scelte politiche”. Quasi che la Costituzione sia un centrotavola o, chissà, una bella giornata di primavera, una parentesi del bello e del buono che però resta estranea alle lacrime e al sangue di tutti i giorni e al gioco sporco a cui sembrerebbe invece necessario adattarsi. Appena fuori dalle sedi istituzionali, invece, dopo aver trovato tempo e modo di discettare anche di codici etici, il partito-idra procede all’ennesimo cambio d’abito e si mette a scorribandare, all’inseguimento dell’interesse egoistico o di clan. E ancora, avantindrè!, nuovo travestimento per il ritorno nelle sedi del dibattito pubblico, dove innalzarsi ancora e propagandare, in spregio al senso del ridicolo, la cura degli affari propri come visione e applicazione del bene comune. Bene o male, però, l’opinione pubblica riesce ad apprendere che la strenua difesa di aziende appaltatrici del Comune, in inspiegabile regime di multiproroga dalla notte dei tempi, o di un’urbanistica sregolata, non può e non deve coincidere con il bene comune, così come quel potere pretende di comunicare; l’opinione pubblica bene o male lo capisce, che chi usa violenza inquisitoria e riserva sistematici linciaggi in danno di trasparentissimi soggetti operanti per la trasparenza, per la sottrazione di privilegi e di discrezionalità insopportabili, non può essere, non può fare il bene della città. Al cittadino una parte di tutto questo ancora arriva grazie a una Costituzione coriacea momentaneamente al governo del piccolo paese. Ma il potere che si crede sovrano è feroce e della verità nulla vuole lasciar trapelare, così tra un’ingiuria e l’altra srotola i suoi tentacoli più nevrotici per sporcare quanto più di più pulito il paese abbia mai avuto. L’idra ha da restare avvinghiata alla macchina che la nutre, l’idra ha da sopraelevarsi. Il partito bicefalo sillaba il copione preconfezionato dal potere oligarchico e mette alla gogna chi crede nell’unico preconfezionamento ammissibile, quello scritto nella legalità costituzionale.

Chi ha voluto il ritorno della Costituzione, a Modugno, ha chiesto e ottenuto di essere amministrato da una compagine nuova che trova sinceramente convincente la Costituzione e ne vuole scrupolosamente attuare i principi. Il cittadino modugnese confida che il suo amministratore smonti pezzo a pezzo un sistema che si regge su rapporti assolutistici e auspica che si realizzi, ad esempio, l’articolo tre della Carta, l’articolo che gli promette l’emancipazione vera e gli consente di mettersi alle spalle quel sistema di relazioni sociali ed economiche di stampo feudale che proprio a Modugno ha messo le sue radici.

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L’architettura pastrufaziana dell’Ing. Gadda

Di ville, di ville!; di villette otto locali doppi servissi; di principesche ville locali quaranta ampio terrazzo sui laghi veduta panoramica del Serruchón – orto, frutteto, garage, portineria, tennis, acqua potabile, vasca pozzonero oltre settecento ettolitri: – esposte mezzogiorno, o ponente, o levante, o levante-mezzogiorno, o mezzogiorno-ponente, protette d’olmi o d’antique ombre dei faggi avverso il tramontano e il pampero, ma non dai monsoni delle ipoteche, che spirano a tutt’andare anche sull’anfiteatro morenico del Serruchón e lungo le pioppaie del Prado; di ville!

Di villule!, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici delle ville, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pendici preandine, che, manco a dirlo, «digradano dolcemente»: alle miti bacinelle dei loro laghi. Quale per commissione d’un fabbricante di selle di motociclette arricchito, quale d’un bozzoliere fallito, e quale d’un qualche ridipinto conte o marchese sbiadito, che non erano riusciti né l’uno a farsi affusolare le dita, né l’altro, nonché ad arricchire, ma purtroppo nemmeno a fallire, tanto aveva potuto soccorrergli la sua nobiltà d’animo, nella terra dei bozzoli in alto mare e delle motociclette per aria. Della gran parte di quelle ville, quando venivan fuori più «civettuole» che mai dalle robinie, o dal ridondante fogliame del banzavóis come da un bananeto delle Canarie, si sarebbe proprio potuto affermare, in caso di bisogno, e ad essere uno scrittore in gamba, che «occhieggiavano di tra il verzicare dei colli». Noi ci contenteremo, dato che le verze non sono il nostro forte, di segnalare come qualmente taluno de’ più in vista fra quei politecnicali prodotti, col tetto tutto gronde, e le gronde tutte punte, a triangolacci settentrionali e glaciali, inalberasse pretese di chalet svizzero, pur seguitando a cuocere nella vastità del ferragosto americano: ma il legno dell’Oberland era però soltanto dipinto (sulla scialbatura serruchonese) e un po’ troppo stinto, anche, dalle dacquate e dai monsoni. Altre villule, dov’è lo spigoluccio più in fuora, si drizzavano su, belle belle, in una torricella pseudosenese o pastrufazianamente normanna, con una lunga e nera stanga in coppa, per il parafulmine e la bandiera. Altre ancora si insignivano di cupolette e pinnacoli vari, di tipo russo o quasi, un po’ come dei rapanelli o cipolle capovolti, a copertura embricata e bene spesso policroma, e cioè squamme d’un carnevalesco rettile, metà gialle e metà celesti. Cosicché tenevano della pagoda e della filanda, ed erano anche una via di mezzo fra l’Albambra e il Kremlino.


Poiché tutto, tutto! era passato pel capo degli architetti pastrufaziani, salvo forse i connotati del Buon Gusto. Era passato l’umberto e il guglielmo e il neo-classico e il neo-neoclassico e l’impero e il secondo impero; il liberty, il floreale, il corinzio, il pompeiano, l’angioino, l’egizio-sommaruga e il coppedè-alessio; e i casínos di gesso caramellato di Biarritz e d’Ostenda, il P.L.M. e Fagnano Olona, Montecarlo, Indianòpolis, il Medioevo, cioè un Filippo Maria di buona bocca a braccetto col Califfo: e anche la Regina Vittoria (d’Inghilterra), per quanto stravaccata su di un’ottomana turca: (sic). E ora vi stava lavorando il funzionale novecento, con le sue funzionalissime scale a rompigamba, di marmo rosa: e occhi di bue da non dire, veri oblò del càssero, per la stireria e la cucina; col tinello detto office: (la qual parola esercitava un fascino inimmaginabile sui novelli Vignola di Terepáttola). Coi cessi da non poterci capire se non incastrati, tanto razionali erano, di cinquantacinque per quarantacinque; o, una volta dentro, da non arrivar nemmeno al sospetto del come potervisi abbandonare: cioè a manifestazione alcuna del proprio libero arbitrio. Ché, per quanto libere, sono però talvolta impellenti e dimandano, comunque, un certo volume di manovra. Con palestra per i ragazzi, se mai volessero cavarsi lo sfizio; non parendogli essere abbastanza flessuosi e snodati tra una bocciatura e l’altra, tra il luglio e l’ottobre. Con tetto a terrazzo per i bagni di sole della signora, e del signore, che aspiravano già da tanto tempo, per quanto invano, sia lei che lui, alla bronzatura permanente (delle meningi), oggi così di moda. Con le vetrate a ghigliottina uno e sessanta larghe nel telaio dei cementi, da chiamar dentro la montagna ed il lago, ossia nella hall, alla quale inoltre conferiscono una temperatura deliziosa: da ova sode.

La cognizione del dolore

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La condivisione riciccia sempre

Avvisoforte!!!!

La parola “condivisione” fiorisce sempre sulle labbra dei padronoidi.

Ti sto asservendo, ti sto feudalizzando e pestando a sangue ma ho bisogno di raccontare un’altra storia ed ecco che la condivisione mi precipita sulla lingua.

Spezziamo il pane e rendiamo grazie, a omelia ben sciorinata, l’eucaristia l’è fatta. E sulla Costituzione sia fatta la volontà del Signorino.

letteraria, minimi sistemi

L’ombelico del mondo

Ingredienti per trionfare al premio letterario “Ilmondoruotaattornoannoi”

“Io vado con Renzi alle primarie, così io e te mettiamo un chip anche lì.” Franceschini a Letta

“Ogni volta che gli parlo lo convinco che non deve diffidare di me. Enrico, stai sereno. Poi però legge i giornali e ricomincia.” Renzi

“Napolitano dovrebbe liberarci di Letta.” Squinzi

“Letta ha fatto un grande lavoro.” Renzi

“La direzione rileva la necessità e l’urgenza di aprire una fase nuova, con un nuovo esecutivo che abbia la forza politica per affrontare i problemi del paese con un orizzonte di legislatura.” O’piddì

letteraria

“L’antica brama di chi scrive”. Il lavoro integrale su Nuovi Tegumenti. Si ringrazia madame Beatrice Blasonai per la gentile ospitalità



Prima e dopo che un corpo a corpo tra l’avvenente (d’avvenenza pseudoceltica e “piacevolmente scimmiesca”) professore arrivato dall’Europa negli Stati Uniti e la bramata dodicenne indigena di Ramsdale, Lolita è una lotta all’arma bianca tra lo scrittore deprivato della sua lingua madre e la giovane, già di per sé molto neo, lingua americana, la quale poi, allo straniero che tenti di abitarla e possederla, finisce per risultare anche più acerba e prepubere. Lo suggerisce lo stesso Nabokov in un bellissimo commento al libro, laddove peraltro si misura, tanto brevemente quanto incisivamente, con i temi universali della letteratura: erotismo e sensualità (anche se dovremmo più appropriatamente oggi leggere l’endiadi come erotismopornografia, con l’erotismo al posto della sensualità e la pornografia al posto dell’erotismo), “realtà” e fantasia individuale, realismo e simbolismi di portata psicanalitica, morale e godimento estetico, moralismo e norma dell’arte. Certo, la carnalità innominabile, eppure così magistralmente nominata, che corre tra Humbert Humbert e la poco più che bambina Dolores Haze/Dolly/Lolita/Lo (talora anche ma Carmen), deve essere letta per quella che è, ossia l’oggetto di una storia straziante, la storia di un orrendo sopruso perpetrato da un malfattore ai danni di una fanciulla. Questo va detto senza mezzi termini e la trama, al dunque, questo è. Eppure, che sprofondo nell’arte!, quanta bellezza insostenibile di tormentato amore, quanta “amorosa oscurità” si sprigiona dalle pagine di questo libro.

La storia di un individuo mostruoso rattratto nel suo “buio misericordioso”, un elemento condiviso con l’incessante fantasma di Lolita, non con la giovanetta in carne e ossa, perché con questa egli si gode la luce del giorno, e perché la piccola e a volte banale, volgare, accidiosa Lolita non sa decifrare “gli abominevoli geroglifici della sua lussuria”, dunque non con questa infelice creatura nella “sua prima adolescenza di puledra”, ma col suo spettro, l’ossesso professor Humbert ripara nel suo inferno.

“D’un tratto, signori della giuria, come un sole distante e terribile sentii albeggiare (sotto la smorfia che mi deformava la bocca) un ghigno dostoevskiano.”

Eppure, c’è ancora da intendersi sull’orrendo sopruso, e diciamo pure obbrobrioso crimine.

Quel che Nabokov mette in scena non è un crimine sessuale che si consuma e magari si reitera ad opera di un maniaco disgraziato, ma una strutturatissima passione per quelle che nel libro vengono chiamate ninfette, un culto da raffinato intenditore, come potrebbe essere quello di un dotto antiquario o di un profondo studioso di storia dell’arte, o ancora, di un appassionato entomologo. E proprio come lo specialista che ama la sua disciplina (al punto da considerarla arte superba) non cerca altro che un capolavoro di riferimento a cui sacrificare l’intera sua esistenza (difatti, in questi casi l’opera d’arte diventa ossessione, concubina ossessione) con lo scopo di penetrarne il mistero e ambendo all’impresa vitale di rivelare al mondo tale mistero in tutta la sua bruciante bellezza, così Humbert, voce narrante, imbattutosi nella più meravigliosa di tutte le ninfette possibili ne fa una divinità, “un demone immortale travestito da bambina”, da ringraziare con grida lancinanti e ululati. Quando Lolita “nettareo biancore” irrompe nella storia, infatti, scompare la mania nel suo aspetto più patologico ed entrano in gioco altri fattori (ingredienti di un grande romanzo) ma soprattutto entra in gioco la natura castrante dell’amore totale. Non è un caso che solo verso l’epilogo della vicenda narrata, Humbert realizzi finalmente che cosa gli aveva sempre evocato la figura di Lo: la fulva Venere di Botticelli.

Il criminoso disegno del maturo e anche mite professore arrivato d’oltreoceano non può in alcun modo essere assimilato alla necessità di soddisfare pulsioni criptopedofile – il professor Humbert non commetterebbe mai uno stupro che, tra le oltre cose, troverebbe di una depravazione sommamente antiestetica -, ma viene piuttosto a coincidere con una incontenibile furiosa speranza d’amore, “arcobaleni di fango ribollente … simboli della mia passione”, pronta a negare l’infanzia a una bambina (”derubarla del suo giglio”) con distruttività non diversa da quella che abbiamo abbondantemente imparato a conoscere nei più quotidiani casi in cui l’uomo o la donna richiede/impone l’annientamento dell’identità del proprio partner; furia di speranzoso amore, in nome del quale dare via anni e anni di vita, spianare le strade d’America, “le liriche, epiche, tragiche ma mai arcadiche plaghe d’America”, finendo al contempo per annichilire e distruggere l’oggetto d’amore. Se si vuole, il delitto è anche più indicibilmente mostruoso. Eppure, la narrazione di questa abiezione enormemente innalza Lolita e la consegna a futura memoria.

Io ti amavo. Ero un mostro pentapodo, ma ti amavo. Ero ignobile, brutale e turpido e tutto quello che vuoi, mais je t’amais! E c’erano momenti in cui sapevo come ti sentivi, e saperlo era l’inferno, piccola mia. Bambina Lolita, coraggiosa Dolly Schiller.

La si vede trascorrere, Lolita, dalla maliziosa consapevolezza erotica alla mocciosaggine esasperante alla triste coscienza dell’inganno subito e, di nuovo, alla scaltrezza attiva dell’inganno da perpetrare con la complicità del doppio dello scrittore Humbert, il drammaturgo Quilty.

L’attrazione tra i due, alla deriva verso una parodia di incesto (in quanto il diabolico Humbert aveva programmaticamente sposato la madre di Lolita, Charlotte), non può che schiantarsi contro un duro nulla (”l’escrescenza dura, contorta, teleologica”). Nel frattempo però Nabokov ha decretato la prevalenza degli Dei della semantica sui filistei della patta ermetica così che uno dei rapporti più torbidi che si possa immaginare non conosce mai, nelle pagine di questo libro, una sconcezza, mai una turpitudine, mai una violazione oscena che sia tacciabile come insopportabile violazione delle persone. Il tasso di letterarietà è altissimo e pertanto, si deve ripetere, la narrazione di questa abiezione, enormemente, innalza Lolita e la consegna a futura memoria.



Può essere utile l’accostamento con L’incantatore, racconto scritto da Nabokov in lingua russa nel ‘39, quindici anni prima di Lolita. Utile non per congetturare sulla più o meno dubbia moralità dell’autore. Ma per seguire un percorso che resta solo e squisitamente artistico. Un medesimo soggetto accomuna le due opere ed è la penna di Nabokov a illustrare L’incantatore come il primo, piccolo palpito di Lolita. Il doloroso spasmo di assimilazione estetica che infradicia Humbert mentre contempla la plasticità del tennis di Lolita (”nell’arabesco dei suoi movimenti”) è lo stesso provato dal quarantenne senza nome di fronte allo spettacolo della bambina che pattina. Solo, ne L’incantatore, il motivo della pedofilia è praticamente dichiarato, tanto più evidente in quanto inversamente proporzionale alla figuretta priva di sessualità della “ragazzina” dai tratti infantili molto più marcati che in Lolita. Tuttavia, i suoi buoni lettori converranno che si tratta di “pura invenzione artistica”. Ma a parte ciò, è l’evoluzione della scrittura nabokoviana che rileva: alla bambina del ‘39 spunteranno la malizia, la consapevolezza e la carica erotica di Dolores Haze a misura del racconto a cui spuntano le ali del romanzo. Questo solo è davvero interessante e, anzi, sommamente apprezzabile. Non certi psicologismi (”tutto il racket psicanalitico”) da cui Nabokov rifugge e invita a rifuggire in nome della sua antica faida con i “vudù freudiani”. Leggere questi suoi libri può essere esperienza di valore solo se si è in grado di cogliere, flaubertianamente, ben altro: la sapienza con cui si arricchisce di indizi il testo, la precisione degli universi, la compattezza artistica, l’intima coerenza che si svolge a partire da determinati presupposti.

L’attrazione che l’immaturità esercita su di me potrebbe stare non tanto nella bellezza limpida, pura, giovane e proibita di una bambina fiabesca, quanto dalla sicurezza datami da una situazione in cui infinite imperfezioni colmano l’abisso fra il poco che è dato e il molto che è promesso – il grande, irraggiungibile grigio-rosa. Mes fenêtres.”

Lo scrittore diventa tale, in pienezza e maturità, quando il suo sentimento fiducioso e predolorico è definitivamente sepolto in un passato che non ha alcuna chance di riaffiorare.



Orbene, Nabokov ha adorato “ogni poro e ogni follicolo” della pubescente lingua a cui stava dichiarando il suo amore. Peraltro, non esattamente la lingua inglese, ma la Lingua. Quella che gli serviva in quel momento e che gli è sempre servita per scrivere, quella che si ripresenta sempre vergine, tormentosamente vergine,come ogni scrittore sa, all’inizio di una storia. Quella che fa disperare e toglie il sonno, che allatta e che si allatta, cresce e stratifica, si mestrua e poi si insemina, e poi si riproduce, sorride e poi pian piano sfiorisce e perde tutta la sua luce e … infine … diventa “l’ombra piccola e congelata di se stessa”.


Determinazioni e riflessione entro sé dell’essenza artstica

Kubrick - complice il divino Sellers che sul set fa quello che gli pare - scorge in Lolita il motivo della tensione linguistica che si fa ossessione e poi vero e proprio incubo di inappropriabilità, e perciò si mette a tirare allo spasimo, e con ragione da vendere, la figura di Clare Quilty, il drammaturgo che fa impazzire Humbert, la proiezione irraggiungibile del frustrato professore europeo. Tanto che per prevalere su quello, Humbert sarà costretto ad andare per le spicce, di buone rivoltellate, lui seduttore sofistico.

Peter Sellers quasi quasi doveva fare solo un cameo ma conquistandosi la parte a suon di numeri da fuoriclasse, asseconda Kubrick (o se lo trascina, che importa) e il film è nell’opera. Tra i due si forma come una specie di precipitato di genio e … niente più Lolita … niente più scabrosità, né mostri né pedofilia. 

Clare Quilty, protagonista assoluto con i suoi travestimenti, la sua trama barocco-espressionista come la sua magione, onnipresente, se getta la maschera dell’istrione ti angoscia nella sua declinazione di uomo senza volto, persecutore diabolicamente ingegnoso non nelle vesti del giustiziere/moralizzatore ma in quelle del talento maggiormente dotato che giustamente pretende la propria affermazione (sulla mediocrità e, inevitabilmente, nello spazio del film), restando giustiziato dalla paranoia. La partita a scacchi, l’enigma, lo specchio, il doppio. Anche se stilemi risaputi e abusati in esercizi interpretativi di ogni risma, Lolita è sempre stato un magistrale approfondimento artistico di questi. La dodicenne è solo il criterio di riduzione a unità delle scissioni che ci tormentano. Il medium.


Lolita medium significa Lolita come punto di contatto tra la finitezza singolare del professor Humbert e l’Uno essenteClare Quilty posto come altro da Humbert.

Lolita, coscienza infelice che realizza cristianamente l’unificazione in Spirito tra ebraismo veterotestamentario, desiderante e laborioso, e autocoscienza immutabile di termine fisso (pura astrazione).


letteraria

“L’antica brama di chi scrive” /post scriptum

Lolita medium significa Lolita come punto di contatto tra la finitezza singolare del professor Humbert e l’Uno essente Clare Quilty posto come altro da Humbert.

Lolita, coscienza infelice che realizza cristianamente l’unificazione in Spirito tra ebraismo veterotestamentario, desiderante e laborioso, e autocoscienza immutabile di termine fisso (pura astrazione).

letteraria

“L’antica brama di chi scrive” /4

Determinazioni e riflessione entro sé dell’essenza artstica

Kubrick - complice il divino Sellers che sul set fa quello che gli pare - scorge in Lolita il motivo della tensione linguistica che si fa ossessione e poi vero e proprio incubo di inappropriabilità, e perciò si mette a tirare allo spasimo, e con ragione da vendere, la figura di Clare Quilty, il drammaturgo che fa impazzire Humbert, la proiezione irraggiungibile del frustrato professore europeo. Tanto che per prevalere su quello, Humbert sarà costretto ad andare per le spicce, di buone rivoltellate, lui seduttore sofistico.

Peter Sellers quasi quasi doveva fare solo un cameo ma conquistandosi la parte a suon di numeri da fuoriclasse, asseconda Kubrick (o se lo trascina, che importa) e il film è nell’opera. Tra i due si forma come una specie di precipitato di genio e … niente più Lolita … niente più scabrosità, né mostri né pedofilia.

Clare Quilty, protagonista assoluto con i suoi travestimenti, la sua trama barocco-espressionista come la sua magione, onnipresente, se getta la maschera dell’istrione ti angoscia nella sua declinazione di uomo senza volto, persecutore diabolicamente ingegnoso non nelle vesti del giustiziere/moralizzatore ma in quelle del talento maggiormente dotato che giustamente pretende la propria affermazione (sulla mediocrità e, inevitabilmente, nello spazio del film), restando giustiziato dalla paranoia. La partita a scacchi, l’enigma, lo specchio, il doppio. Anche se stilemi risaputi e abusati in esercizi interpretativi di ogni risma, Lolita è sempre stato un magistrale approfondimento artistico di questi. La dodicenne è solo il criterio di riduzione a unità delle scissioni che ci tormentano. Il medium.

(fine)

letteraria

“l’antica brama di chi scrive” /3

“D’un tratto, signori della giuria, come un sole distante e terribile sentii albeggiare (sotto la smorfia che mi deformava la bocca) un ghigno dostoevskiano.”

Eppure, c’è ancora da intendersi sull’orrendo sopruso, e diciamo pure obbrobrioso crimine.

Quel che Nabokov mette in scena non è un crimine sessuale che si consuma e magari si reitera ad opera di un maniaco disgraziato, ma una strutturatissima passione per quelle che nel libro vengono chiamate ninfette, un culto da raffinato intenditore, come potrebbe essere quello di un dotto antiquario o di un profondo studioso di storia dell’arte, o ancora, di un appassionato entomologo. E proprio come lo specialista che ama la sua disciplina (al punto da considerarla arte superba) non cerca altro che un capolavoro di riferimento a cui sacrificare l’intera sua esistenza (difatti, in questi casi l’opera d’arte diventa ossessione, concubina ossessione) con lo scopo di penetrarne il mistero e ambendo all’impresa vitale di rivelare al mondo tale mistero in tutta la sua bruciante bellezza, così Humbert, voce narrante, imbattutosi nella più meravigliosa di tutte le ninfette possibili ne fa una divinità, “un demone immortale travestito da bambina”, da ringraziare con grida lancinanti e ululati. Quando Lolita “nettareo biancore” irrompe nella storia, infatti, scompare la mania nel suo aspetto più patologico ed entrano in gioco altri fattori (ingredienti di un grande romanzo) ma soprattutto entra in gioco la natura castrante dell’amore totale. Non è un caso che solo verso l’epilogo della vicenda narrata, Humbert realizzi finalmente che cosa gli aveva sempre evocato la figura di Lo: la fulva Venere di Botticelli.

Il criminoso disegno del maturo e anche mite professore arrivato d’oltreoceano non può in alcun modo essere assimilato alla necessità di soddisfare pulsioni criptopedofile – il professor Humbert non commetterebbe mai uno stupro che, tra le oltre cose, troverebbe di una depravazione sommamente antiestetica -, ma viene piuttosto a coincidere con una incontenibile furiosa speranza d’amore, “arcobaleni di fango ribollente … simboli della mia passione”, pronta a negare l’infanzia a una bambina (”derubarla del suo giglio”) con distruttività non diversa da quella che abbiamo abbondantemente imparato a conoscere nei più quotidiani casi in cui l’uomo o la donna richiede/impone l’annientamento dell’identità del proprio partner; furia di speranzoso amore, in nome del quale dare via anni e anni di vita, spianare le strade d’America, “le liriche, epiche, tragiche ma mai arcadiche plaghe d’America”, finendo al contempo per annichilire e distruggere l’oggetto d’amore. Se si vuole, il delitto è anche più indicibilmente mostruoso. Eppure, la narrazione di questa abiezione enormemente innalza Lolita e la consegna a futura memoria.

Io ti amavo. Ero un mostro pentapodo, ma ti amavo. Ero ignobile, brutale e turpido e tutto quello che vuoi, mais je t’amais! E c’erano momenti in cui sapevo come ti sentivi, e saperlo era l’inferno, piccola mia. Bambina Lolita, coraggiosa Dolly Schiller.

La si vede trascorrere, Lolita, dalla maliziosa consapevolezza erotica alla mocciosaggine esasperante alla triste coscienza dell’inganno subito e, di nuovo, alla scaltrezza attiva dell’inganno da perpetrare con la complicità del doppio dello scrittore Humbert, il drammaturgo Quilty.

L’attrazione tra i due, alla deriva verso una parodia di incesto (in quanto il diabolico Humbert aveva programmaticamente sposato la madre di Lolita, Charlotte), non può che schiantarsi contro un duro nulla (”l’escrescenza dura, contorta, teleologica”). Nel frattempo però Nabokov ha decretato la prevalenza degli Dei della semantica sui filistei della patta ermetica così che uno dei rapporti più torbidi che si possa immaginare non conosce mai, nelle pagine di questo libro, una sconcezza, mai una turpitudine, mai una violazione oscena che sia tacciabile come insopportabile violazione delle persone. Il tasso di letterarietà è altissimo e pertanto, si deve ripetere, la narrazione di questa abiezione, enormemente, innalza Lolita e la consegna a futura memoria.


Può essere utile l’accostamento con L’incantatore, racconto scritto da Nabokov in lingua russa nel ‘39, quindici anni prima di Lolita. Utile non per congetturare sulla più o meno dubbia moralità dell’autore. Ma per seguire un percorso che resta solo e squisitamente artistico. Un medesimo soggetto accomuna le due opere ed è la penna di Nabokov a illustrare L’incantatore come il primo, piccolo palpito di Lolita. Il doloroso spasmo di assimilazione estetica che infradicia Humbert mentre contempla la plasticità del tennis di Lolita (”nell’arabesco dei suoi movimenti”) è lo stesso provato dal quarantenne senza nome di fronte allo spettacolo della bambina che pattina. Solo, ne L’incantatore, il motivo della pedofilia è praticamente dichiarato, tanto più evidente in quanto inversamente proporzionale alla figuretta priva di sessualità della “ragazzina” dai tratti infantili molto più marcati che in Lolita. Tuttavia, i suoi buoni lettori converranno che si tratta di “pura invenzione artistica”. Ma a parte ciò, è l’evoluzione della scrittura nabokoviana che rileva: alla bambina del ‘39 spunteranno la malizia, la consapevolezza e la carica erotica di Dolores Haze a misura del racconto a cui spuntano le ali del romanzo. Questo solo è davvero interessante e, anzi, sommamente apprezzabile. Non certi psicologismi (”tutto il racket psicanalitico”) da cui Nabokov rifugge e invita a rifuggire in nome della sua antica faida con i “vudù freudiani”. Leggere questi suoi libri può essere esperienza di valore solo se si è in grado di cogliere, flaubertianamente, ben altro: la sapienza con cui si arricchisce di indizi il testo, la precisione degli universi, la compattezza artistica, l’intima coerenza che si svolge a partire da determinati presupposti.

L’attrazione che l’immaturità esercita su di me potrebbe stare non tanto nella bellezza limpida, pura, giovane e proibita di una bambina fiabesca, quanto dalla sicurezza datami da una situazione in cui infinite imperfezioni colmano l’abisso fra il poco che è dato e il molto che è promesso – il grande, irraggiungibile grigio-rosa. Mes fenêtres.”

Lo scrittore diventa tale, in pienezza e maturità, quando il suo sentimento fiducioso e predolorico è definitivamente sepolto in un passato che non ha alcuna chance di riaffiorare.


Orbene, Nabokov ha adorato “ogni poro e ogni follicolo” della pubescente lingua a cui stava dichiarando il suo amore. Peraltro, non esattamente la lingua inglese, ma la Lingua. Quella che gli serviva in quel momento e che gli è sempre servita per scrivere, quella che si ripresenta sempre vergine, tormentosamente vergine,come ogni scrittore sa, all’inizio di una storia. Quella che fa disperare e toglie il sonno, che allatta e che si allatta, cresce e stratifica, si mestrua e poi si insemina, e poi si riproduce, sorride e poi pian piano sfiorisce e perde tutta la sua luce e … infine … diventa “l’ombra piccola e congelata di se stessa”.

(continua)


letteraria

“l’antica brama di chi scrive” /2

ANNABEL LEE

Or son molti e molti anni
che in un regno in riva al mare
viveva una fanciulla che col nome
chiamerete di ANNABEL LEE:
e viveva questa fanciulla con non altro pensiero
che d’amarmi e d’essere amata da me.

Io ero un bimbo e lei una bimba,
in questo regno in riva al mare;
ma ci amavamo d’un amore ch’era più che amore
io e la mia ANNABEL LEE
d’un amore che gli alati serafini in cielo
invidiavano a lei ed a me.

E fu per questo che -oh, molto tempo fa-
in questo regno in riva al mare
un vento soffiò da una nube, raggelando
la mia bella ANNABEL LEE;
così che vennero i suoi nobili parenti
e la portarono da me lontano
per rinchiuderla in un sepolcro
in questo regno in riva al mare.

Gli angeli, non così felici in cielo come noi,
a lei e a me portarono invidia -
oh sì! E fu per questo (e tutti ben lo sanno
in questo regno in riva al mare)
che quel vento irruppe una notte dalla nube
raggelando e uccidendo la mia bella ANNABEL LEE.

Ma molto era più forte il nostro amore
che l’amor d’altri di noi più grandi-
che l’amor d’altri di noi più savi-
e né gli angeli lassù nel cielo
né i demoni dentro il profondo mare
mai potran separare la mia anima dall’anima
della bella ANNABEL LEE:

giacché mai raggia la luna che non mi porti sogni
della bella ANNABEL LEE;
e mai stella si leva ch’io non senta i fulgenti occhi della bella ANNABEL LEE:
e così, nelle notti, al fianco io giaccio
del mio amore – mio amore – mia vita e mia sposa,
nel suo sepolcro lì in riva al mare,
nella sua tomba in riva al risonante mare.

Edgar Allan Poe

(continua)

letteraria

“L’antica brama di chi scrive” /1


Prima e dopo che un corpo a corpo tra l’avvenente (d’avvenenza pseudoceltica e “piacevolmente scimmiesca”) professore arrivato dall’Europa negli Stati Uniti e la bramata dodicenne indigena di Ramsdale, Lolita è una lotta all’arma bianca tra lo scrittore deprivato della sua lingua madre e la già giovane, già di per sé molto neo, lingua americana, la quale poi, allo straniero che tenti di abitarla e possederla, finisce per risultare anche più acerba e prepubere. Lo suggerisce lo stesso Nabokov in un bellissimo commento al libro, laddove peraltro si misura, tanto brevemente quanto incisivamente, con i temi universali della letteratura: erotismo e sensualità (anche se dovremmo più appropriatamente oggi leggere l’endiadi come erotismo e pornografia, con l’erotismo al posto della sensualità e la pornografia al posto dell’erotismo), “realtà” e fantasia individuale, realismo e simbolismi di portata psicanalitica, morale e godimento estetico, moralismo e norma dell’arte. Certo, la carnalità innominabile, eppure così magistralmente nominata, che corre tra Humbert Humbert e la poco più che bambina Dolores Haze/Dolly/Lolita/Lo (talora anche ma Carmen), deve essere letta per quella che è, ossia l’oggetto di una storia straziante, la storia di un orrendo sopruso perpetrato da un malfattore ai danni di una fanciulla. Questo va detto senza mezzi termini e la trama, al dunque, questo è. Eppure, che sprofondo nell’arte!, quanta bellezza insostenibile di tormentato amore, quanta “amorosa oscurità” si sprigiona dalle pagine di questo libro.

La storia di un individuo mostruoso rattratto nel suo “buio misericordioso”, un elemento condiviso con l’incessante fantasma di Lolita, non con la giovanetta in carne e ossa, perché con questa egli si gode la luce del giorno, e perché la piccola e a volte banale, volgare, accidiosa Lolita non sa decifrare “gli abominevoli geroglifici della sua lussuria”, dunque non con questa infelice creatura nella “sua prima adolescenza di puledra”, ma col suo spettro, l’ossesso professor Humbert ripara nel suo inferno.

(continua)

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