letteraria

Il contesto

Con arroganza ripetete a memoria / quel che non sapete / idee-spray schiuma /di vecchie e nuove idee / (più vecchie che nuove) /che le vostre / labbra squagliano e sbavano / come appena ieri in braccio alla mamma / -La mamma la mamma- / il gelato di crema. E colano / dalle vostre barbe di protomartiri / coltivata impostura / finzione di una maturità che vi faccia / uguali al padre e idonei dunque all’incesto. / la mamma / tutto qui il problema / la donna che sta nel letto di vostro padre / e voi annunciate il suo regno / e sotto la barba avete facce / di sanluigi del neo-capitalismo / tutte le tare dei Gonzaga in quel volto affilato / tutte le tare della borghesia nel vostro / lui cresciuto tra i nani e i buffoni / tra i gobbi e gli impotenti / distillato dal malfrancese / e fu santo perché mai guardò in faccia sua madre / che era donna / e voi la guardate in faccia e pensate / che è una troia se sta nel letto di vostro padre / perché siete più santi di lui anche se non lo sapete / e siete cresciuti anche voi / tra buffoni nani e impotenti / tra l’oro e la luce / la barba dunque a rendere tenebrose / le facce di magnaccia delicati / di invertiti / pervertiti / e Robespierre che non aveva barba / ride di voi della vostra rivoluzione / il suo teschio ride / la sua polvere / la sua estrema omeomeria che più vale / di tutta la vostra vita / cioè del fatto che siete vivi e lui morto / e anche Marx che aveva la barba ride / Ride in ogni pelo della sua barba / ride dei gusci vuoti che vi ha lasciato / sonagliere che tintinnano / del seme essiccato del seme spento / e voi ve ne parate come muli da fiera / le scuote nell’ozio nell’insoddisfazione nel disgusto / (il seme vivo di Marx è in coloro che soffrono / che pensano / che non hanno bandiere) / ridono Robespierre e Marx / ma forse anche piangono / dell’uomo non più umano che in voi si realizza / del pensiero che non pensa / dell’amore che non ama / del perpetuo fiasco del sesso e della mente / con cui annunciate il regno delle madri / e that is not what I meant at all / that is not it, at all / non questo non questo / e nemmeno noi volevamo questo / noi buffoni / viziosi / corrotti / noi padri / nemmeno noi / poiché prostituivamo la vita ma intendevamo l’amore / prostituivamo la mente ma intendevamo il pensiero / la ragione / il sesso / l’uomo e la donna / il maschio e la femmina / il dolore / la morte. / Diceva Talleyrand che la dolcezza del vivere / conoscevano solo quelli che come lui / avevano vissuto prima della rivoluzione / ma dopo di voi (non dopo la vostra rivoluzione / ché non la farete) non ci sarà più / reliquia riflesso eco / della dolcezza del vivere / né di voi resterà storia / se non negli archivi del federal narcotic bureau. / l’uomo umano ha avuto la sua luna / umana dea / quieto lume d’amore / voi avete la vostra / grigia pomice vaiolosa / deserto degno delle vostre ossa non più umane / natura morta con le morte ampolle del senno / ma già non sapete niente / dell’ariostesca fiaba di Orlando / del suo senno recuperato da Astolfo / in un viaggio lunare / del senno sigillato in un fiasco / come il vostro (ma irrecuperabile / è il vostro). Il fiasco natura morta / il fiasco cilecca dell’eros / come Stendhal diceva / in italiano nel testo / Stendhal che voi non conoscete / Stendhal che parla / la lingua della passione cui siete morti.

(Da Il contesto, Leonardo Sciascia)

letteraria

segnalo

funghi patogeni

Il giorno dei morti

Si diceva in giro che l’amministrazione comunale volesse sanare l’immonda discarica e contestualmente ampliare il cimitero con due nuovi lotti. A quel punto c’era solo da aspettare l’ufficializzazione della notizia che si vendevano concessioni per nuovi loculi. Innocenza frequentava il cimitero con la speranza di vedere affisso l’atto comunale negli appositi spazi.

2 novembre 2008 - cimitero comunale di Bari

Le genti si andavano aggruppando intorno alle tombe dei loro cari e parlottavano di svariate cose.
C’era un donna che appendeva la sua borsetta su un ramo di cipresso e si lamentava di uno che se n’era andato senza salutare due giorni prima.
Un uomo con una giacca a vento rossa e un mazzetto di semprevivi dai gambi avvolti nella stagnola, il reflusso gastrico che ne scolpiva i lineamenti, il quale infatti sorrideva, raccontando di quanto avesse mangiato pesante la sera prima.
Innocenza Lacitignola, una signora sulla sessantina dagli occhi nero carbone, capelli grigi dalle colorazioni ruggine, capelli a tinte fosche, a far visita ai suoi morti è riuscita a trascinarsi, per la prima volta, la sua figliola trentenne Vincenza, capelli di un castano slavato e insolentiti dall’alopecia, parimenti slavati gli occhi, slabbrati gli angoli della bocca. Davanti alla tomba Innocenza snocciola preghiere e chiosa: “La vedite a chesse? … (fa una pausa stupendamente teatrale per indicare la donna più giovane al suo fianco) …Ce tene ‘ne brutte destine, chiamataville!”.

Traduzione:

Vedete questa figlia mia? …Valutate: se ha un brutto destino, chiamatela a voi”.


diario di un giullare timido, letteraria

La Repubblica porta ritardo

Scusate ma non riesco a tenerlo dentro:

ho scritto un libro (Racconti a vita bassa) cercando di illustrare un mondo di esistenze sbagliate, vite piene di scompensi morali e fisici, bambini di otto anni già molto smaliziati ma vittime di crescite anomale il cui futuro è un approdo di perversione; predestinazione alla criminalità; un collegio monastico con tutta la violenza fisica delle suore che porto ancora dentro di me; bambini dispersi, ritrovati e di nuovo abbandonati; una dedica a tutte quelle persone che vivono nella totale perdizione e che non intravedono il giorno in cui riusciranno a ritrovarsi; la desertificazione del suolo e l’inaridimento dei rapporti umani; vite vissute per delega, secondo il condizionamento se non la prescrizione di qualcun altro, vuoti interiori incolmabili, arsura morale da parte degli adulti e, per converso, infanzia violata anche da matta bestialità; e nessuna bellezza a far da paciere col mondo.

Le storie intrecciate di Dàniel e Michelino bambini, Gerardina la genitrice possibile e falsa, della quale mi affascinava il percorso che porta una donna, che si sente benefattrice perché fa la carità e raccoglie i bambini per strada, a non sentire più nulla, come per una sorta di legge del contrappasso, finisce per non sentire più nulla sia fisicamente che metaforicamente. L’ho punita in questo modo perché è una persona che ha costruito tutto sulla falsità, sull’ipocrisia, come ce n’è nella nostra provincia: bigottone che fanno finta di occuparsi degli altri ma, quando qualcosa le tocca da vicino, eccole manifestare il loro spietato egoismo.

L’adolescente Olga, ben lontana dalla maturità perché costretta a subire la violenza dell’universo che la circonda: un ragazza in conflitto con tutto e tutti e che colleziona una serie di scelte sbagliate. Olga, diversamente dagli altri personaggi, possiede una famiglia ma evidentemente non le serve.

Tutto un mondo in cui la famiglia non esiste ma di cui, paradossalmente, se ne sente la mancanza, e tuttavia non si tratta tanto di nostalgia della famiglia intesa in senso tradizionale quanto di una rete degli affetti, di legami profondi e reali.

Infine, Riccardo. Spaventevole quanto naturale evoluzione dei personaggi da me creati.

Insomma, tutta una geografia umana ignorata, come nota Giuseppe Giglio, una commedia di demenza e dolore.

Poi un bel giorno arriva R2 (La Repubblica del 20 ottobre 2008) e titola I BAMBINI PERDUTI DI PUGLIA .

Tenere ben presente che si tratta dell’inchiesta di prima pagina della sezione R2 de La Repubblica.

Il giornalista scrive: Abusati, violentati, picchiati. Sono 50.000 i minori abbandonati in Italia, la maggior parte nel Sud. Così, mentre l’adozione è un terno al lotto, le comunità si riempiono di bimbi. Condannati alla solitudine […]
un esercito di ombre condannate ad un limbo: quasi nessuno torna a casa […]
nuovi orfani, figli di genitori falliti… non esiste un elenco di adulti pronti ad accoglierli.

Dopodiché passa in rassegna l’opinionismo di alcune belle teste d’uovo. Nell’ordine, Nostra Famiglia: “parliamo di devianza giovanile e non ci accorgiamo che a esondare è la devianza degli adulti”; il sociologo Giuseppe Moro: “Bruciamo una generazione confondendo l’autodistruzione con la normalità”; il sociologo Saverio Abruzzese: “La precarietà devasta genitori immaturi e la famiglia allargata si disintegra”; Famiglia Dovuta: “è una società tacitamente costruita per l’abbandono… qualche domanda è lecita sugli interessi che si muovono attorno all’agonia delle nostre relazioni; la priorità non è nemmeno più aiutare i figli traditi dall’egoismo, ma salvare gli adulti dal nulla che li uccide; la patente per i genitori”.

Mi si perdoni la presunzione:

MA IO CHE AVEVO DETTO?!

riquaderni dal carcere

Il ventre molle della penitenza


foto di Fabio Ciampi

Muto il televisore poggiato su un piatto fissato con piastra a muro. Alto. Può venire buono se si decide di suicidarcisi annodando le lenzuola intorno al braccio metallico. Due armadietti in legno. Tutti stanno già a dormire nelle loro brande, letti avvitati ai pavimenti. Qui si avvita l’avvitabile, per ogni oggetto c’è una palla al piede di competenza. Non è vero che tutti dormono ma vero è che tutti cercano di farlo. La cella sarebbe completamente buia se i riflettori del corridoio non riverberassero al suo interno un bagliore a strisce. Circa mezz’ora fa gli altoparlanti hanno latrato SPEGNERE LE LUCI.
Aurelio detto SUGNA a tutta prima pare uno che sappia ascoltare, uno col quale si possa ragionare, un comprensivo insomma. Ma arriva sempre il momento in cui si convince che qualcuno gli abbia nuociuto e allora ti accorgi che è uno spietato di uomo e che non ci sono santi che possano fermare la sua mano. Uccide senza che la vittima si accorga di niente fino a quando non tira l’ultimo respiro. Sarà lui ad uccidere Donato Depechemode, quando tutti avrebbero scommesso che l’avrebbe fatto Rocco detto IL FORATO.
IL FORATO perché zoppica e zoppica in quanto gambizzato d’antan. Sarebbe il capo, il vessatore, tutta scorza e grandi scoppi di rabbia. Prima di farsi vincere dal sonno usa illanguidirsi sorprendentemente nelle sue lenzuola con un asciugamano intriso d’aceto avvolto intorno al capo. Sta sempre pateticamente un pò male.

L’oscurità più fitta negli angoli della stanza. Rocco tarda più d’ogni altro ad addormentartsi, perché al ’tempo’ viene difficile piegare la sua ossessione a vigilare. Se potessi alzarti senza essere notato, se potessi avvicinare, curvandoti sul suo corpo disteso, il tuo volto al suo, sfruttando un’immaginaria dote di invisibilità, potresti contempalre lo spettacolo di uno sguardo concentrato, annidato e sorgente dalla culla degli occhi sbarrati mentre tutti gli altri ronfano. Un precipitato di nervi tesi la cui tenuta è assicurata da una sorta di allarme permanente. A Rocco IL FORATO i denti gli si sono talmente guastati che non si esiterebe a definirli torsoli di mela. E Rocco IL FORATO se si vuole salvare deve aspettare il giorno in cui un plotoncino di madonnine di gesso azzurro verrà a posarsi su ciascuno dei minuscoli torsoli di mela che gli sbucan dalle gengive.

La preghierina della sera di Donato Depechemode:

c’è un ultimo David Gahan-tribute, tutta una kermesse anni ‘80 per i peggio sotti e commandos di tossici che esistano che, tra strobo cessi sveltine videotapes e desideri inappagati, abbiamo accumulato anche deficit di orientamento spaziale e sappiamo solo dire NON IMPARANGOSCIATEMI! In finale prendo sonno accusando fantini sul mio corpo.

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letteraria

il delitto dei giusti

Una fiaba tragica di Giuseppe Giglio

 [questa recensione è stata pubblicata su Pagine dal Sud (aprile/giugno 2008), rivista trimestrale di politica, cultura e letteratura edita a Ragusa a cura del Centro Studi Feliciano Rossitto]

 

In una splendida valle, un paradiso incastonato tra le montagne del Sud-Est della Francia, un vecchio contadino sdipana i fili della memoria. E racconta della vita di un piccolo borgo di quella vallata, nella regione del Maubert, in cui la stirpe degli Arnal – che da diverse generazioni instancabilmente lavora nei boschi, nei pascoli e nelle piantagioni - detiene un’indiscussa reggenza morale. Un dominio sugli uomini che da sempre pare nutrito dell’esercizio di virtù legate alle quotidiane necessità, senza eroismi e magnificenze, fin quasi a conferire il prestigio del soprannaturale alla reputazione degli Arnal (una famiglia in cui «matrimoni tra cugini riportavano in seno al gruppo chi se n’era temporaneamente allontanato»), a comporre un’epopea familiare dell’onestà e della giustizia. Il vecchio Arnal è l’imponente patriarca: membro di spicco del consiglio comunale per oltre quarant’anni, Consigliere – così lo chiamano i valligiani - conta più del sindaco e del parroco. Tutti si rivolgono a lui per un consiglio, e in tanti ogni domenica febbrilmente lo attendono, depositario di verità, infallibile oracolo.

In quell’oasi di serenità, cui una natura di prepotente bellezza fa da fascinoso controcanto, Maurice e Clémence Arnal, fratello e sorella, condividono ogni gioco, ogni scoperta. E i primi brividi di una sensualità prepotente. Bella, sorda e selvatica, affascinata dai prati, dagli alveari e dai boschi, Clémence se ne sta «sdraiata sull’erba vecchia raspata dalla neve, la pancia sulla terra riscaldata, la testa nelle braccia piegate, le cosce stese e i polpacci che battevano l’aria con moto alterno». Fino a quando indecifrabili vertigini d’infanzia improvvisamente esplodono, e rendono il corpo di Clémence - «fin troppo consapevole di essere isolato dai rumori del mondo» - «sensibile a tutti i fremiti della vita», fino alle estreme conseguenze. Ma quell’amore proibito scatena una tremenda reazione della famiglia, che giunge a compiere un gesto orribile, una meschina congiura della vita contro la vita: il delitto dei giusti.

Reca questo titolo uno dei più significativi libri di André Chamson (1900-1983)), edito per la prima volta nel 1928 (titolo originale: Le crime des justes), uscito in Italia nel 1947 nella Medusa, la prestigiosa collana mondadoriana, e ora  finalmente riproposto da Marcos y Marcos, a rendere il giusto omaggio ad un intellettuale - amico di Gide, Malraux e Valéry, tra i maggiori narratori del Novecento francese - quasi dimenticato nel nostro Paese. La voce  narrante, alter ego dello scrittore, sembra riscoprire un vecchio capriccio di Gesualdo Bufalino: «Raccontare un ricordo lo fa diventare una fiaba», con felice riferimento al potere ludico della memoria, che guida lo scrittore all’artificio dell’invenzione. Ma se Il delitto dei giusti  ha della fiaba l’agilità e la leggerezza, nel libro dominano i toni dell’apologo. E un amore incestuoso appena accennato – uno schizzo vergato con rapide ma pregnanti pennellate (non la morbosa e affascinante  profondità dell’amore tra il raffinato “dilettante” Ulrich e sua sorella Agate, per esempio, ne L’uomo senza qualità di Musil; e neanche l’incesto, tutto giocato sull’ambiguità, del landolfiano Un amore del nostro tempo) - diviene agile manovella per sollevare un pesante velario sulle debolezze, le ipocrisie e i perbenismi di una piccola comunità dell’inizio del secolo scorso, ma che molto somiglia a tanta odierna società, sempre più povera della moneta più preziosa: quella del vivere.

Nessun delitto può appartenere ad un uomo giusto; e neanche ad un uomo eccezionale. E invece Consigliere – per difendere una reputazione su cui il narratore lascia intanto intravedere nere ombre, per coprire uno scandalo che li avrebbe travolti – pare avocare a sé e alla famiglia una sorta di «diritto al delitto», come il dostoevskijano Raskol’nikov. Ma Consigliere non ha affatto la statura di quell’enorme personaggio, e neanche la tragica irresoluzione di Lafcadio, il gidiano eroe dell’atto gratuito. È soltanto un uomo schiavo della propria mania di grandezza, con cui il tempo (il destino? il fato?) si diverte a giocare, quasi a conferire vivida sostanza ad un aforisma di Eraclito l’Oscuro: «Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo». E il finale del racconto sembra andare proprio in questa direzione.

«Un libro sta tutto in come finisce. La fine deve essere spaventosa. E ci deve essere un re», disse una volta un oracolante contadino (che non sapeva leggere) a Leonardo Sciascia. E lo scrittore subito notò che quel vecchio agricoltore stava reinventando la tragedia greca, «quella che i suoi pari di più che duemila anni addietro chiedevano ad Eschilo e Sofocle, che ascoltavano negli anfiteatri tra gli ulivi, di fronte al mare». La fine de Il delitto dei giusti è spaventosa. E c’è anche il re: nudo, ma sempre ammantato della sua orribile regalità. Al lettore la catarsi.

 

Giuseppe Giglio

letteraria

Giuseppe Giglio vive a Randazzo, in Sicilia. Studioso e critico di letteratura (si occupa prevalentemente del novecento), scrive su diversi periodici letterari.

In questo spazio, credo, cercherà di assolvere al meglio, per quel che gli compete, il compito di portare senso dentro “questo nostro piccolo mondo, assai greve”, maneggiando gli strumenti della critica militante e personalizzando con la sua biografia di colto lettore.

In questo blog, alla pagina bibliografia, è riportata la bella recensione che Giuseppe Giglio ha scritto su Stilos dei miei Racconti a vita bassa.

diario di un giullare timido

carpaccio benevolentiae

Dopo interminabili giorni di purgatorio sono di nuovo qui a scrivere sul blog. Il mio pc portatile è andato. La scheda grafica in vacca e dunque da buttare tutto quanto poiché nei notebook la suddetta scheda è integrata nella piastra madre. Sono stato letteralmente nel pallone per una ventina di giorni, con un estro creativo straripante (ma mi guardo bene dal dire di valore) che non poteva essere incanalato in alcun modo per via del fatto che il materiale su cui lavoro era appunto tutto dentro un pc inservibile. Ora, però ho un nuovo pc, con Vista come sistema oprativo (più friendly, più ruffiano, come sostiene con toni irrisori mio cugino omonimo), ancora tutto da scoprire. Ma manca poco e sto tornando ad annoiarvi con il mio ombelico, ad ammorbarvi con la mia sintassi, a inconsciamente respingervi con la mia supponenza. Insomma, ad azzannarvi i coglioni.

E dopo essermi concesso quest’ultima stronzata, per l’aspetto meno faceto del blog passo a informarvi che da domani si tenta l’esperimento di una lettura agonistica del presente adoperando il grimaldello della letteratura. Sono lieto di ospitare, infatti, gli interventi Giuseppe Giglio. Se non fosse anche e soprattutto un amico, cara sponda per me in Sicilia, mi sarei limitato ad annunciarlo con tono più protocollare: mi onoro di… etc. Non che non me ne onori comunque, ma non voglio insistere sulla strada dell’arruffianamento: mio cugino incombe.

letteraria

fior da fiore

Sacco è come le Superga in una pubblicità di tanti anni fa, o si odia o si ama.

Il decespugliatore che si può comprare al lunedì.

La solitudine dei numeri primi è un brodino knorr allungato fino all’inverosimile… metafore matematiche spalmate in ogni buco fino alla nausea. Una lingua monocorde e banale come il suono di un citofono… robina da menopausate.

L’Eco di Paperopoli o i Meridiani… fare i weltroniani a tutti costi… cazzo! almeno sui libri… no!

Somministratrice di queste e altre esilaranti purghette, battutista seriale, fabbrichetta di stilettate, inanellatrice di magistrali similitudini contemporanee, fotagrafa stramba del postmoderno, è di questa ragazza che voglio parlare: Fabrizia Pinna.

Anche lei appartiene alla razza scrittora, ma ciò che più sorprende del suo Per tutte le altre destinazioni, è la difformità stilistica rispetto agli enunciati che ci dispensa per via orale o per altri canali di comunicazione diversi dall’oggetto libro. Cosa che credo possa essere testimoniata da chiunque abbia avuto il privilegio di conoscerla di persona e al contempo leggere Blonditudo e Réclame d’Afrique (i due racconti che compongono il suo volume). “Un controllo feroce dell’aggettivazione” dicono i suoi recensori, non un avverbio di troppo, mai uno scivolone nei territori dello smanceroso nonostante la storia svolga la vita della protagonista Giulietta sulla direttrice esperienza del dolore - ricerca degli affetti - autoassegnazione di un orizzonte, e pure nonostante una miracolosa immacolata concezione, o giù di lì. Ciò che della sua biografia resta nella sua prosa è un deposito leggero di freschezza e un certo strabismo di divertito sguardo.

Circa la parte meno risolta del libro, il secondo e più breve racconto, che ha effettivamente il limite di uno sfilacciamento che Per tutte le altre destinazioni non meritava, vorrei comunque segnalare il pregevole tentativo di esplorazione nelle zone più limacciose delle esistenze protagoniste. Pur andando a sfrangersi in una traiettoria meno significativa della precedente si assiste alla coraggiosa messa in scena di qualche salutare complicazione che lascia ben sperare per il suo futuro di scrittrice.

letteraria

PARRUCCONI

Per rispondere a Biz:

mi sembra sempre troppo facile sparare a palle incatenate sul libro maggiormente premiato dal mercato. Non che tu abbia torto, tuttavia La solitudine dei numeri primi mi sembra una di quelle opere, se vuoi scusa per il termine, che si presta a giudizi favorevoli e contrari, entrambi con eguale legittimità. In altre parole, ribadisco la mia opinione ma al tempo stesso trovo centrata ed esatta la tua critica. E ti assicuro che non si tratta di terzismo, equidistanza ecumenica, viltà nel non voler riconoscere di aver forato. Ora però ti rivolgo un quesito un po’ ingenuo, un po’ provocatorio e un pò no: e se quel titolo fosse stato presente nel catalogo Quarup?

Magari adesso mi risponde anche qualche altro lettore di questo blog che, puttana miseria, non so più come stanare. Va da sé che scherzo e che continuerò a scrivere di ciclismo impipandomi dell’appeal.  

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