diario di un giullare timido, letteraria

Quando il romanzo lo scrive il film

E a proposito di ‘far decantare le cose’, torno solo ora dalla lettura di Gomorra, dopo aver lasciato che si accumulasse polvere sul libro per ben tre anni. Acquistato alla sua prima uscita e subito deposto in uno scaffale della mia libreria, avrei voluto che sul fondo del caso Saviano si depositassero tutte le distorsioni mediatiche per poi poter sprofondarmi nella lettura del libro finalmente chiarificato ma, ahimè, devo constatare che non è mai stato possibile in tutto questo tempo togliere l’ingombro del film e degli oscar mancati, della scorta, della fatwa dei casalesi, delle polemiche sui giornali, dei nuovi interventi giornalistici di Saviano e del conseguente, rinnovato clamore attorno all’affaire. E poiché sospettavo il libro un po’ troppo schiacciato sul cronachismo, per non perdermi completezza di informazioni a sicuro rischio di obsolescenza, mi son dovuto affrettare a leggerlo. Ma non diversamente da come affronto la lettura quotidiana de la Repubblica: compulsivamente. Nell’ossessione di avere il presente interamente monitorato, dominato e posseduto, e nella penosa illusione che quante più numerose e dettagliate sono le informazioni che dal presente riesci a ricavare tanto più accresciuta, puntuale, agguerrita e centrata sarà la capacità di scavo della tua lingua al cospetto della realtà. Il tutto secondo una logica però malata, che ottiene l’effetto opposto: ti porta pian piano lontano dai libri ma sempre più addosso ai quotidiani, ai settimanali, alle notizie on-line. Ecco, Gomorra l’ho letto con questo personale spirito di stare andando lontano dai libri e più vicino, anzi sempre più dentro la mia personale coazione a ripetere l’inutile lettura di articoli, critiche, recensioni della cosa. Un demente girare attorno alla cosa a scapito della discesa, dello smarrimento NELLA cosa.

Aggiungo però, a lettura ultimata, che Saviano ha scritto un libro di grande valore e che tale valore vada inscritto in qualche branca delle discipline intellettuali ma non certo nella Letteratura, ambito nel quale mi sembrava claudicasse.

E poi di Gomorra: Saviano ha scritto il libro ma il romanzo l’ha scritto il film. Li si pongano a confronto e, a parte l’ovvia considerazione che senza il libro non ci sarebbe il film, mi si dica in quale dei due mezzi espressivi si rintracciano i segni di una grande narrazione.

diario di un giullare timido

Les bon-mots (pour moi. Ça va sans dire)

Pane, uova, burro, latte. Decantare. Lasciamo decantare le cose. Le mafie. Lattuga. Cacciare (nel senso di tirare fuori qualcosa o sbattere qualcuno/qualcosa in fondo a qualcosa). Scolpire. Lenzuola fresche e ben stirate. Cardini (quelli veri però, delle porte). Ricevitore. Prenditore. Carne. Nocelle. Apoteosi. Cartoccio (da cui anche cartuccio, incartocciare, scartocciare e incartocciato). Trimone a vento. Terrazza. Terrone. Muretti a secco. Pellicola. Scapole, inguine, lungo la curva della schiena, l’incavo, i tendini. Strappare. Cassetti. Tele incerate. Telecamere. Tastiera. Capelli, la ricrescita, la radice. L’uccello. Parco auto. Caldaia, termostato, ghiera, doghe in legno, fave, interruttore, lampada, carrozzina, andito, buio, suoni. Solido. Ceramica. Gres porcellanato. Scamazzare, rocciatore, caraffa, condizioni pedoclimatiche, caratteristiche organolettiche, terreno, tralcio, la guida (come manufatto che permette lo scorrimento di un corpo da un punto all’altro). Chiusino. Flessibile (come sostantivo). Fanga e fangaia. Porcaio, carnaio, ginepraio. Pelle e sutura. Antipiretici. Guardia, ladro, gaglioffo. Manutengolo. Cedimento e squarcio. Tenuta stagna. Serpeggiare. Lingueggiare. Nuca, testina e morticini. Acidità. Brutto. Entraglie/gne. Sbranare. Guerriero. Riposo. Eternità. Guanciale, sgabello. Papà. Lampascioni. Subacqueo, gommone, spuma di mare. Muto. “te la vedi tu, adesso.”, “Io non ti pago.”, “Ti mangio il cuore.”, sarabanda, santabarbara e zumpapà!

festa della mamma, la miglior vendetta

novità e altri ippopotami

AI NONNI, AI PAPA’, ALLE MAMME!!!

VENITE A VISITARE LA SUPERNOVITA’: L’IPPOPOTAMO CHE CANTA LA CANZONCINA ‘AUIMBAUE’.

Il mantra gracchiante veniva dall’esterno, quella mattina di Piero. Un megafono su una macchina che girava intorno alla villa; una voce malamente elettrificata si affievoliva man mano che si allontanava oppure tornava più forte quando la macchina indugiava sotto casa. Un punteruolo devastante di voce, quella mattina. Roba che tra Piero, Giovanni e l’ippopotamo si rischiava di spappolarsi le tempie. La ripresa sorda della pena in clamore.

VE LO CONSEGNAMO GIA’ FUNZIONANTE, COMPLETO DI BATTERIE A SOLO TRE EURO.

È BELLO. È L’IPPOPOTAMO ZE’ FILIPPO.

È BELLO DA REGALARE, MORBIDO DA ACCAREZZARE.

È BELLO.

È UN REGALO PER MASCHIETTI E FEMMINUCCE.

L’IPPOPOTAMO CHE CANTA ‘AUIMBAUE’.

È BELLO DA APPENDERE IN MACCHINA. È BELLO DA METTERE IN CAMERETTA.

È BELLO PERCHE’ SI PREME IL SACCHETTO E CANTA LA CANZONCINA.

È BELLO.

È L’IPPOPOTAMO ZE’ FILIPPO.

festa della mamma, la miglior vendetta

Carta di caramelle

La materializzazione di quell’essere umano in fila allo sportello della stazione mi stava strappando sciami d’odio. L’avevo visto il giorno prima, per un istante ma tanto è bastato perché quegli occhi, quel capello, quel giaccone di renna si piantassero in croce nella testa. Legno marcio e scheggiato con un giaccone di renna appeso ad esso per i peduncoli cerebrali. Mi sentivo stampelle di legno nella testa. Una corrente densa e oleosa convogliata interamente dentro all’immagine di quell’uomo: un odio che se ne andava da me e che in me tornava accresciuto del valore aggiunto di quel volto sereno. E se scartavo caramelle il crepitare dell’involucro cartaceo tra le dita mi procurava una fitta dal dolore insostenibile. Poi passava ma mi restava il sistema nervoso crocefisso.

Fiona.

Eh?

Dio sa che stai soffrendo.

Piero quella mattina mandava strilli lancinanti a frantumarsi contro i muri maestri della sua oscurità. Era un buio portante, monumentale. Possente buio del pianto che i medici ancora non si spiegavano. Piangeva fino ad asfissiarsi.

Piero.

‘nghu!

Dio sa che stai soffrendo.

Non sapevo cosa fare. O forse non avevo voglia di fare. M diressi verso il bagno. Ma con lentezza. Poi feci calare la mano brutalmente sulla maniglia e aprii la porta del bagno scaraventando il battente contro la parete laterale. Ci fu in rinculo e sempre fracassando, con una nuova manata, rifissai la porta alla parete. Mi guardava sconcertato, seduto sulla tazza, col Focus tra le mani e i tappi nelle orecchie.

Giovanni.

Sì.

Dio sa che stai soffrendo.

Sì.

letteraria

Giustizia /3

La giustizia umana e quella divina

di Giuseppe Giglio

(Recensione del romanzo Giustizia, di Friedrich Dürrematt - Marcos y Marcos, 2005, pubblicata sul n. 1/2006 diStilos“)

«Ancora una volta voglio sondare scrupolosamente le probabilità che forse restano alla giustizia». Sono tra le prime, sconcertanti, drammatiche note di una lunga «relazione» con cui si apre Giustizia. Felix Spät, giovane e squattrinato avvocato, scrive dell’assurda assoluzione di un assassino. In un noto ristorante della Zurigo degli anni Cinquanta, frequentato dai notabili della città, il consigliere cantonale Isaac Kohler, con un colpo di pistola, uccide a sangue freddo un famoso professore universitario. Lasciatosi docilmente arrestare e incarcerato, Kohler (che non ha mai svelato il movente del suo gesto) convoca Spät, da poco sganciatosi, da «galoppino o poco più», dallo studio di Stüssi-Leupin, l’avvocato più in vista della città, abilissimo intermediatore al servizio dei potentati economici. Dietro ghiotto compenso, Kohler, «perfettamente felice» in carcere, chiede al legale di riesaminare il caso, partendo dall’assurda ipotesi che non sia lui l’assassino. Spät – insospettito, ma costretto ad accettare dal bisogno – capirà poi di essere caduto vittima di un’infernale macchinazione, di essere divenuto, con le sue indagini, involontario istigatore di diversi omicidi, sullo sfondo di complicità e connivenze impensabili. In un Paese che «è uscito dalla storia quando è entrato nel grande giro industriale», il Potere ha ormai piegato la giustizia alle sue esigenze; e Kohler - «un uomo a cui piace giocare la parte di Dio su questo miserabile pianeta», da formidabile burattinaio all’interno di una guerra economica non meglio definibile (gestisce gli affari di Monika Steiermann, diabolica nana a capo di un enorme impero economico, tra le cui attività è anche il traffico di armi) - si diverte a manovrare gli esseri umani come palle da biliardo, persino dal carcere. Giocando à la bande, mandandole tutte in buca, intrecciando con stupefacente abilità la vischiosa ragnatela in cui sono implicati, consapevoli o no, compiacenti o no, i personaggi di questo eretico e magistrale giallo. Una storia complicata, surreale e grottesca, al limite del paradosso, ma filigranata da una scrittura elegante, raffinata, essenziale, allusiva, che cesella quadri di meccanica precisione e obiettività, e che sviluppa al massimo grado la dürrenmattiana tendenza centrifuga parodistica, autodistruttiva e demistificante: tra traffici di armi e prostitute, megere e intoccabili, sparizioni e omicidi, in un Paese che ha prodotto gli orologi di precisione e gli psicofarmaci, il segreto bancario e la neutralità perenne. Un congegno perfetto, che porge al lettore i dubbi di Dürrenmatt circa il rapporto tra la realtà criminale e la finzione “gialla”, ma soprattutto sul significato della giustizia umana e di quella divina, sulla relatività del concetto stesso di giustizia, sul senso del farsi giustizia da sé quando il crimine intuito non può essere dimostrabile, quando a Spät, dopo l’assoluzione di Kohler, per evitare che la giustizia diventi «una farsa totale», non resta altro che prepararsi per un «assassinio giusto». Ma dovrà arrendersi al caso beffardo. E sempre al caso Dürrenmatt affida l’inatteso epilogo: uno scrittore (cui era pervenuta la «relazione» di Spät) incontrerà, trent’anni dopo i fatti, Kohler, vecchissimo, e sua figlia Hélène, con cui avrà un lungo colloquio; è l’inizio di una discesa all’inferno, nelle profondità dell’animo umano, per scoprirne lacerti davvero sorprendenti, fino alle difficili, inquietanti domande finali: «Chi è colpevole? Chi dà l’incarico o chi lo accetta? Chi vieta o chi non osserva il divieto? Chi emana le leggi o chi le infrange? Chi concede la libertà o chi la ottiene?». Non è facile rispondere. Ma Dürrenmatt - dopo aver incastonato tanti tasselli nel mosaico di un personaggio-uomo multiforme e irregolare, di cui proprio il triangolo Spät-Hélène-Kohler offre un esempio mirabilmente efficace – ha provato a sollevare il velario su un’irredenta quotidianità: per mostrare, tra visioni apocalittiche, doloroso disincanto e sottile tormento morale, come gli uomini vivano ormai in un labirinto di specchi franti, dove i confini tra etica (ridotta a mero gioco dialettico) e opportunismo, dipendenza e libertà, sono molto sottili, in un mondo in cui persino il diavolo è stanco e in cui si può morire «di quella libertà che concediamo e che ci concediamo»; in un mondo che assomiglia sempre più a «una polveriera in cui non è vietato fumare».

Giuseppe Giglio

letteraria

Giustizia /2

[…] ma in questo caso la sentenza che ho pronunciato su di me e l’esecuzione della sentenza per mano mia è la cosa più giusta del mondo, perché la giustizia può compiersi soltanto tra coloro che sono egualmente colpevoli, così come esiste una sola crocefissione, quella dell’altare di Isenheim, un gigante crocifisso è fissato alla croce, un cadavere atroce, sotto il cui peso si piegano le travi alle quali è inchiodato, un Cristo ancora più spaventoso di quello per cui fu dipinta questa pala d’altare per i lebbrosi; quando videro quel Dio crocifisso, tra loro e questo Dio, che secondo la loro credenza aveva inviato la lebbra, si ristabilì la giustizia: questo Dio era stato giustamente crocifisso per loro. […]

Giustizia, di Friedrich Dürrematt

letteraria

Giustizia

La Crocifissione di Matthias Grünewald - Altare di Isenheim - Musée d’Unterlinden - Colmar.

diario di un giullare timido, funghi patogeni, riflessioni su due ruote

Libertà di una lavatrice

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA INTERNO 12

Le passioni e gli appetiti della società degli uomini: Il Potere Vs La Giustizia. Il papa non serve che sia cattolico così come non serve che un giudice sia giusto. Uomini che sembrano troppo grandi e pesanti per la loro ossatura.

Televisione = società della scarsità delle risorse. I Cesaroni Vs Annozero. Scampoli di commedia all’italiana Vs scampoli di informazione.

Incartamenti di parole e altri peni pieni di euri e scadenze. La lavatrice. Una volta camminava. Non le avevo tolto i distanziali e lei camminava. Era uno spettacolo. Ansia di libertà di una lavatrice.

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA ESTERNO 12

Una maledizione di guano nella stradetta, di pesce dalla pescheria vicina, di morti.

Di morti maledicenti, ecco, non più maledetti. Uomini morti sderenati da tali sondini che sembran vivi. Emanano odore di fiori incomparabilmente belli e marci.

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA INTERNO 12

Il divano-letto-di-morte perennemente aperto. Piace Lance Armstrong stavolta. Non perché debole, no. Ma perché quell’uomo in bici recupera e ricompone la nobiltà dell’uomo, se esiste.

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA ESTERNO 12

Sono di fretta. Mi mettono fretta. Mentre faccio delle cose un ragazzo sui trent’anni mi costringe a interrompere. Una corporatura troppo grossa e pesante per la sua ossatura, sembra uscito da un libro che sto leggendo. Una contrazione sulla faccia gli conferisce un’espressione sofferente. Come se soffrisse mostruose calure da generazioni.

  • Ma questo a che serve? – ha la pastella agli angoli della bocca e anche al centro delle labbra. Ogni volta che quelle si schiudono rimane una fettuccina di questa ricottina a far loro da esile congiunzione
  • Serve, serve – cerco di liquidarlo.
  • E come, spiega.
  • Ok, te lo spiego.
  • Eh, spiega, spiega.
  • Vedi questo? Qui ci devi inserire quello.
  • Ah, davvero? E che ci fai?
  • In questo modo ottieni questo risultato –, penso di aver concluso.
  • Come questo risultato?
  • Questo!
  • Ma quale risultato?
  • Quello che ti ho appena detto! – mi innervosisco.
  • E spiega. Spiega bene – mi fa con un’espressione tra l’implorante e l’ottuso.
  • Allora… -, e gli ripeto tutto quanto.
  • Ma come?
  • Ma come come? Così! -, sono spazientito.
  • Così? E come così? Spiega, spiega bene.

Ripeto tutto come un automa, mentre osservo le sue labbra rosse come sacche piene di sangue fresco e il filamento che ostinatamente si riforma e non si stacca.

Non è, però, il libro che sto leggendo.

altri spot, riflessioni su due ruote

Fikscion, ti prendo a fiskion

Ho sempre apprezzato Annozero (la trasmissione di Santoro) al punto da tenerla come una riserva di biosfera sul Mont Ventoux (dove ci si fa un culo così!) a fronte del paesaggio spettrale della televisione italiana (quella generalista). Quel che mi catturava fino a poco tempo fa non era tanto la qualità (unanimemente riconosciuta) dei reportage quanto proprio lui, Santoro, per quella abilità di drammaturgo in presa diretta che regolarmente sfoggiava. Una capacità di fare racconto con ogni puntata, scoprendo le sua carte poco per volta, come uno sceneggiatore esperto che sa esattamente quando deve metterci quella folata di vento improvvisa, la porta che si spalanca, la finestra che sbatte. E riservandosi poi i carichi di briscola per il suo gran finale, dove trionfava, il Miguelon, regolando tutti in volata (ove mai questo fosse possibile su un traguardo posto in cima al Mont Ventoux). Davvero una perizia da scrittore seriale. Lasciamo perdere, invece, il numeretto di decompressione di Vauro: risatine spesso tirate per i capelli, anche se quando la imbrocca straccia tutti è proprio il numeretto delle vignette con la sua voce recitante che non mi garba.

Ma Santoro, deve essersi appannato lui, proprio. È un po’ che sbanda con la fiction. Dice: ma è a scopo divulgativo. Sarà. Ma la Guerritore che imprestava la voce alla Veronica nazionale era uno strazio. Che se un cavaliere davvero deve affrontare quei toni lì ogni volta che rientra a casetta avrebbe ragione tutta la vita. Questa deriva di Annozero verso la fiction, aggravata dalla puntata sulle operazioni degli Agnelli e della Fiat predatrice int’o munne, sta squassando il mio gruppo d’ascolto. Che mi significa questa finzione di cose verissime sceneggiate e spiettellate poi in grana grossa, cioè fatte male, con atmosfere tipo centovetrine rincoglionita? Sarà che si portano molto la fiction, la docu-fiction e adesso parlano pure di non fiction? Nella fattispecie sarebbe anche più opportuno parlare di non fiction. Nel senso della negazione delle fiction ben fatte.

Se Santoro non ritorna in sé allora è sicuro che i geni del berlusconismo son perniciosissimi, si adattano a qualunque ambiente, mutano loro e mutano tutto quanto. E sono talmente grossi, enormi, che non li vedi neanche più. Sono il tuo mondo e la tua vista; le tue facoltà neanche si dànno più la pena di notarli dal tanto che ci son diventati familiari. Come accade con i monumenti. Solo che questi son dei tali geni. (accento acuto sulla e).

minimi sistemi

la Puglia prima di tutto

Il vetro in frantumi che è l’Italia secondo Scalfari

ma i frammenti modugnesi non fanno che replicare una sola immagine

 

BASTA CON L’IPOCRISIA

(recita lo stesso manifesto)

Poco male per arredo urbano e necrologi.

Però sui cassonetti ci sta proprio ‘a piccione’.

 

 

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