letteraria

Il ritorno di Cavina, scrittore pizzaiolo

Recensione di Giuseppe Giglio, apparsa sul Riformista del 18 aprile 2009

Gilbert Keith Chesterton diceva che bisognava fare il giro del mondo per ritrovare la propria casa. E in quest’affermazione c’è tutto il senso dell’avventura chestertoniana, l’avventura del man alive, dell’uomo vivo, protagonista di tante storie del narratore inglese. Ma a volte basta fare il giro della propria casa per avventurarsi tra i sentieri della vita. E aprire una finestra sul mondo, capire di più di sé stessi e degli altri, scoprire insomma una porzione di esistenza. Che è poi la ragion d’essere di un romanzo. È quel che accade ne I frutti dimenticati, l’ultimo libro di Cristiano Cavina (Marcos y Marcos, € 14,50). Un romanzo breve – o un racconto lungo – ambientato ai nostri giorni, in cui l’incontro di Cristiano (il trentenne protagonista, pizzaiolo e scrittore al tempo stesso, come Cavina; o meglio: narratore innamorato delle storie) con uno sconosciuto concide con la prima tappa di un inaspettato viaggio: tra un presente difficile e i sogni della memoria (sogni che volano come mongolfiere), tra le pareti della casa e le viuzze del piccolo borgo romagnolo in cui Cristiano – che è anche l’io narrante – è cresciuto. Ove « era tutto un coltivare frutti dimenticati», una vera e propria festa collettiva, ogni anno celebrata: giuggiole, pere volpine, sorbi, lazzeruoli, cornioli; tutti tirati su con amore.

Un viaggio affidato a una scrittura scarna e asciutta, in cui strettamente e sottilmente si intrecciano autobiografismo e invenzione: a disegnare per linee essenziali luoghi e personaggi reali e simbolici al tempo stesso, a dar voce a una libera e felice fantasia che sdipana e avvolge grappoli di vita vissuta o in divenire; tra amicizie e inquietudini, gioie ed errori, passione e avventure, tra le bancarelle dei frutti dimenticati e frutti della vita non raccolti, o mancati. Con la leggerezza, il candore e l’innocenza che della favola sono propri.

E a proposito di favola, di favoloso: questa storia si potrebbe leggere come un’immaginaria cartolina dalla Romagna, di calviniana memoria; dove il fiabesco e il realistico, perfettamente complementari, cesellano un personaggio-uomo che anche a noi somiglia: inquieto e come alla ricerca di un’antica armonia perduta, o non trovata. Un personaggio che dolorosamente ritrova un padre mai avuto (un uomo «molto stanco che con abiti troppo grandi si avvicina alla fine», quasi al capolinea) al quale decide di raccontare la propria vita disordinata, che sembra sfuggirgli di mano, proprio mentre la sua compagna – che non è più sicuro di amare – sta per dargli (a lui, Cristiano) un figlio: un bimbo con occhietti da canaglia, da «unno invasore», e con i «mignoli perfettamente uncinati». Proprio le stesse caratteristiche di Cristiano: che da bambino, come un intrepido palombaro (sprofondato in una vecchia tuta da lavoro del nonno, con sulla faccia una maschera da saldatore), guizzava con straordinaria agilità nella camera della nonna a caccia di mirabolanti tesori, come fosse in fondo all’oceano, sicuro della protezione dei papà che si era immaginato: D’Artagnan, Sandokan, Jean Valjean, il conte di Montecristo, persino Dio.

I frutti della vita, dunque; quelli cioè che alla vita stessa appartengono, che le conferiscono dignità e senso. Dapprima assaggiati quasi inconsapevolmente, poi insinuati nell’animo, quindi riscoperti da adulto; e vissuti come favola di sé: l’assenza, l’inquietudine, la malattia, il dolore, la morte, la gioia, la fantasia, le cose semplici, i bambini, l’amore. Soprattutto l’amore, la scoperta e riscoperta dell’amore. E il lettore si sente come convitato ad un gioco di intelligenza attiva, pagina dopo pagina. Guizza - anche lui palombaro - nelle profondità cui si spinge il protagonista, a seguirne la difficile rotta. Fino all’epilogo della storia. Quando si torna in superficie, dopo aver recuperato qualche tesoro. Quando la vita finisce e ricomincia. Quando si viene a capo di un agile filo di fantasia che corre lungo le nostre iinquietudini, balugina tra le intermittenze del cuore, si impenna in grappoli di gioia.

riflessioni su due ruote

dal quinto al decimo km della salita

Ai piedi del monte era in corso un temporale che scaricava fulmini a due metri dai ciclisti. Il grimpeur di 52 kg di peso, bestemmiava i morti all’acquazzone e a tutta quell’umidità che gli imputridiva in pochi minuti quel suo fragile dispositivo di pelle e ossa e ne comprometteva la performance e la salute. I giganti nordici invece ringraziavano il buon dio perché loro andavano meglio col freddo e si auguravano che le condizioni meteo restassero tali anche sul costone di roccia da scalare.

Un temporale produce un brusco abbassamento della temperatura, è vero, ma un temporale estivo passa in fretta e al km 7,5 della salita è di nuovo estate. Torrida estate. Lo scalatore italiano, curvo sul telaio della sua bici, come solo certe schiene di contadini del sud sanno esserlo, se la ride, ha smesso di scarrucolare, si gode il sole che lo riscalda e lo rinvigorisce mentre lo stesso sole provvede a disidratare i corpaccioni dei nordici. La roccia più si sale e più si fa calva come il suo capo, più crea richiami con la sua terra petrosa sparsa di uomini tanto laboriosi quanto silenziosi. Una terra sparsa di queste pietre incastrate una con l’altra, una sopra l’altra, senza calce né malta, a comporre non di rado curiosi abituri “con quella buffa intonacatura in cima al cono, che è la civetteria della pulizia, e dà l’impressione di un berretto da notte ritto sul cucuzzolo di un pagliaccio [...] queste bizzarre estremità dell’edilizia primitiva [...] come ha fatto questa gente ad allineare tanta pietra. Io penso che la cosa avrebbe spaventato un popolo di giganti. Questa è la murgia più aspra e più sassosa…”  (Tommaso Fiore, Un popolo di formiche).

La sua terra. Mica buona per gli allenamenti di uno scalatore: una terra ondulata e arida, qualche groppa qua e là, ma non ascese vertiginose, piuttosto apronsi lame nel terreno, o per altri versi inghiottitoi, gravine, crepacci. “Tutta la vasta plaga dei trulli, compresa Castellana, ricca di gravine e di grotte, se è così laboriosa, così nitida, non conosce il beneficio di una sola sorgiva, vive all’asciutto come il resto della Puglia ed anche più …” (Tommaso Fiore, Un popolo di formiche). Tutte asperità non ascensionali, anzi di segno opposto, ipogeo, volte ad aprirti voragini sotto i pedali, a farti mancare la terra sotto i piedi. A sprofondarti nell’oscurità di grotte e cave. Al fondo dell’orrido e del sacro, anzi dove l’orrido si confonde col sacro di una chiesetta rupestre intitolata alla madonna. Direttamente nel pleistocene inferiore. Carsica la terra come il probabile affiorare di pensieri, malinconie, dolori di chi sta faticando e sudando in corsa, al suo fianco. “[...] le nostre tante gravine, che rompono la spiaggia, sino al mare, ed insieme tutta la zona.”

 La testa di Leonardo per queste imprese è dura come il tufo delle sue origini. Adesso il suo ammasso di nervi e muscoli si abbatte sul pedale con violenza, con pesantezza di corpo tufagno in caduta rovinosa. E si risolleva dallo stesso pedale con la grazia di un monacello danzante. Nonostante sia uno dei più vecchi in gruppo. In questa alternanza di pesantezza di colpi e levità di slancio, si pippa la salita come una agognatissima droga. Se ne è compulsata di orografia.

La vegetazione alpina contro la reminiscenza “dell’aùzzo, l’antico funebre asfodelo” o “del giallo pulverulento delle biade [...] un nerissimo pino [...] un campo di patate”. Il paesaggio alpino contro “la stagliatura slabbrata di qualche lama, di qualche aspra gravina, qualche abrasione di sanguigno”.

minimi sistemi

altri spot, minimi sistemi

A chi tutto e a chi niente

         

Rosario Crocetta, sindaco di Gela (CL) Pino Rana, sindaco di Modugno (BA)

diario di un giullare timido, letteraria

I piccoli amici

Da tempo vado contemplando Il Piccolo Principe.

Da tempo ho smesso la lettura del Piccolo Principe e ne ho cominciato la contemplazione.

L’aver parlato de L’amico ritrovato su questo blog, probabilmente mi sta offrendo il destro per rispolverare risorse comuni ai due libri. A partire dal concetto di amicizia come matrimonio dell’anima, formulato esplicitamente nelle pagine di Uhlman ma non per questo meno presente e meno possente dentro quelle di Antoine de Sainte-Exupéry.

Dicevo della mia estasi contemplativa. Potrebbe sembrare un eufemismo per attenuare il carico di banalità nell’espressione: Il Piccolo Principe, il mio libro sul comodino. Ma comunque la si metta io continuo a vedere, neanche fosse la televisione, il Piccolo Principe. Continuo a vedere il libro, dove a pag. 15 ho appuntato: il non vedere eccita la creatività. Il piccolo principe non ha bisogno di un adulto che gli spieghi le cose (anche perché “i grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta“) ma di qualcuno che lo aiuti a creare il proprio mondo.

Si parla qui di un libro che lotta contro la damnatio memoriae: la cancellazione del nostro essere stati bambini. Ed è esattamente in questo punto delle mie considerazioni che mi sono venuti in mente Dàniel e Michelino dei miei RAVB, su quella forza ansiogena che agisce nel secondo di non doversi mostrare bambini e su quel puntellare del primo: “Guarda che siamo dei bambini“. E contemplo quindi la dedica di Sainte-Exupery: A LEONE WERTH, quando era un bambino.

Contemplo il misuratore di grandezza (il disegno riportato anche in questo post). Lo strumento che misura quanto davvero si è grandi è quello in grado di dirci quanto capaci siamo di vedere oltre le apparenze. E come l’elefante dentro al boa anche il disegno della pecora: non la pecora ma una cassetta con tre forellini. Ricavo, da questo, persino consigli di scrittura, sull’arte di nascondere che aiuta a far vedere le cose. Altri consigli di scrittura sono ricavabili dalle magistrali caratterizzazioni dei vari personaggi incontrati dal piccolo principe nel suo viaggio attraverso sei pianeti prima di arrivare alla Terra.

Contemplo la bellissima prefazione di Nico Orengo, scrittore che niente altro ha prodotto che fosse in grado di interessarmi.

Contemplo le inquietanti analogie tra gli accadimenti del libro e la biografia del suo autore. Le contemplo con le lacrime agli occhi.

Contemplo i quarantatré tramonti come il passaggio all’età adulta: il giorno triste in cui si impose a un bambino di sei anni di rinunciare al disegno. In quello stesso giorno il bambino di sei anni potette assistere a ben quarantatré tramonti.

Il significato di crescere: imparare a fare a meno della cura degli altri.

Contemplo la poesia primigenia di questo libro. Straordinario, per me, l’uomo d’affari che conta le stelle nel cielo allo scopo di possederle (”E che te ne fai di queste stelle?”, “Che cosa me ne faccio?… Niente. Le possiedo.” , ” E a che ti serve possedere le stelle?”, “Mi serve ad essere ricco.”)

Contemplo il piccolo principe epifanico ai bordi delle mie lenzuola insonni e faccio tutto quello che mi ordina senza mai trasgredire.

“Quando un mistero è così sovraccarico non si osa disubbidire.”

letteraria

da Racconti a vita bassa

La prova che il piccolo principe è esistito, sta nel fatto che era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora. Quando uno vuole una pecora è la prova che esiste.

IL PICCOLO PRINCIPE, ANTOINE DE SAINTE-EXUPÉRY

 

PASSAGGI 

1.

L’acqua la portava Ciccillo. E pure il rombo. Cioè Ciccillo portava l’autocisterna e portava l’acqua. Le galline svolazzavano strepitanti che sennò le investiva l’autobotte in arrivo, per poi tornare a comporre il loro quadretto comunitario nel polverone alzato dalla corsa dell’autocarro. Quando le galline, e altri pennuti in gran parte malaticci, si mettevano improvvisamente a svolazzare voleva dire che stava arrivando l’acqua. E quelle non poche volte che c’era stata una grande morìa delle galline voleva dire che l’acqua non arrivava e non sarebbe arrivata per lunghi tempi. E neanche Ciccillo. Sarebbe arrivato. Va da sé che Ciccillo non sarebbe arrivato anche nel caso in cui fosse morto lui. Mah! Comunque…

2.

Carmen aveva fatto tutto da sé. Il cassone di eternit che fungeva da cisterna dell’acqua se l’era sistemato tutto da sola sul soppalco che poggiava sopra la piccola costruzione in acciaio laccato bianco.

Alle sei del mattino la prima cosa da fare era tirare giù la veranda di plastica trasparente per ricavarne la zona giorno. Estrarre il cartone del latte dalla borsa-frigo rubata in un supermercato. Apparecchiare per la colazione. Lo zucchero è in un boccaccio. Aprire lo stipite e scoprire a fianco allo zucchero la bottiglia di whisky. Ricordarsi ogni mattina che ha smesso di bere, Carmen, e che in quella bottiglia ci ha messo il succo di amarena. Riscoprire ogni nuovo giorno di vivere in una voliera il cui proprietario può decidere di spostare, in un qualunque momento e secondo un suo capriccio, in altro punto del suo personale universo. Continua a leggere »

funghi patogeni

Assente giustificato /4

“Allora, siccome potrebbe essere una prostatite”, azzarda una diagnosi il dottore, “mi devi fare un favore. Anche se tu senti la parte morta, ti chiudi qua dentro”, dice mostrandomi una delle porte che danno sulla corsia ospedaliera, “e vedi un po’ tu come fare: serve lo sperma. Me lo fai ’sto favore?” conclude con aria paterna. La porta mi immette in uno stanzino dove c’è una barrella. Abbasso lo sguardo. Disfo la patta e vado con la rianimazione di questo cencio preposto alla gratificazione sessuale. Mi accorgo subito che ci vorrà molto tempo e concentrazione da manuale del tantra. Ma succede che la porta si apre ed entra una figuretta verde dentifricio che manovra un bidone della spazzatura a rotelle. Personale infermieristico. “Oh, mi scusi!” fa. A me non me ne frega niente per tanto che sono scazzato nel senso letterale del termine, sgamato col bischero (che più bischero di così…) tra le mani affannate. Subito entra il mio medico credendo che abbia aperto io la porta. “Allora non avevo chiuso?” realizzo nel frattempo. E queste sono le parole di un povero cristo, lui intuisce e fa MORTACCI MORTAAAACCI!!! Infatti ho fatto un’autentica figura da offeso in mezzo al cervello non capendo che la maniglietta andava sì girata verso sinistra ma doveva anche emettere uno scatto, un clic per blindare la privacy. Allora mi conduce su per un altro corridoio alle spalle della predetta corsia. Ecco qua un’altra stanza: uno studio bello grande, forse il suo, non ho fatto caso alla targhetta. Mi spiega meglio come chiudere la porta; io me lo mangio con gli occhi, mi scappa da chiedergli: vieni tu qua dentro con me, due lappate e finisco tutto in un lampo. Non oso. Lui ripete: “Forza, fammi ’sto favore.” Devo essere apparso parecchio spaesato datosi che non ho parlato granché limitandomi a servire la patria, quella solenne entità che garantisce l’ordine di una comunità sulla base di coercitive urologiche norme concepite per la pronta riparazione dei guasti prodotti dal cazzo al cazzo nel cazzo sul cazzo col cazzo. Più o meno al centro dello studio medico sorge un tramezzo che nasconde l’ennesimo lettino coperto di carta igienica, per le visite. Mi sento molto penalizzato se poco poco penso che là fuori non si fa altro che attendere il mio versamento. Può essere che quando esco mi ritrovo un parterre di prima scelta, con tanto di claque fotoreporter e flash. Poi trovo conforto nel fatto che in fondo, se il sancta sanctorum non mi si fuma del tutto qualcosa dovrà pur significare. Anzi è proprio questa riflessione a rinsanguarmi. Ne beneficia il pistolino che ringrazia i neurotrasmettitori per l’irrorazione accordata. E adesso è uno show vederlo sprintare… a farla breve, alla fine della fiera, il referto medico parla di UREAPLASMA UREALYTICUM, POSITIVO PER MICETI E PROTOZOI, e inoltre LISTERIA MONOCYTOGENES: sono i batteri responsabili di questa mia iperprostatite che ha parecchio socializzato al venissage organizzato dall’Escherichia Coli (peraltro aumentato a cifre con sei zeri) per celebrare non so quale felice ricorrenza tra organismi gram-positvi e gram-negativi, già unitisi ripetutamente in convegno carnale. Allora faccio il matto per avere un consulto col primario della divisione urologica, dottor Birillo, il quale non trova di meglio che mettersi a sdottoreggiare su come non siano infrequenti i casi in cui una simile prostatite e un’infezione urogenitale diano vita a questo bel sodalizio. Ragion per cui, data una ripassata all’antibiogramma, si ricorrerà alla tetraciclina, un antibiotico clamoroso che dovrebbe radere al suolo tutto il vivere associato che mi si annida in panza. Una sprangata al fegato e al sistema nervoso centrale, da sciropparsi ogni dodici ore lontano dai pasti. E mi sembra che sia veramente tra gli antibiotici il più cazzuto. Come lo definiresti tu un medicinale indicato per il trattamento di: ASCESSO POLMONARE (a parte il fatto che quando sbocchinavo il mio piccolo tesoro gli aspiravo via tutto l’apparato digerente, risalivo a quello respiratorio e insieme raggiungevamo l’ASCESI POLMONARE), ACME (COMPRESI IL TIPO CISTICO E PUSTOLOSO), IDROSADENITI SUPPURATIVE, MALATTIA INFIAMMATORIA PELVICA, IMPETIGINE, LINFOADENITI, INFEZIONI DELLE FERITE, DIFTERITE, MENINGITE, SALMONELLOSI (PARATIFO), PUSTOLA MALIGNA, INFEZIONI PUERPERALI, BARTONELLOSI (MALATTIA DI CARRION), BRUCELLOSI, GANGRENA GASSOSA, GRANULOMA INGUINALE (DONOVANOSI), AMEBIASI INTESTINALE ACUTA, TULAREMIA, LISTERIOSI, PESTE (!!!!), TIFO PETECCHIALE, FEBBRE Q, FEBBRE DELLE MONTAGNE ROCCIOSE, RICKETTIOSI VESCICOLARE, FEBBRE DA MORSO DI RATTO, SIFILIDE, INFEZIONI DI VINCENT, FRAMBOESIA, COLERA, LINFOGRANULOMA VENEREO, PSITACCOSI E TRACOMA… Ma cistodidio, queste sono le peggio sciagure sulla faccia della terra. Mi vien fatto di pensare che se oggidì nel mondo imperversa tutto ciò magari i testimoni di geova fanno bene a bussare alla tua porta per chiederti se per caso ti sono venuti pensieri malevoli, per indagare se per caso hai mai avuto il desiderio di spaccare la faccia a dio. Il nesso trovatelo voi mò. E se penso a una REAZIONE DA IPERSENSIBILITÀ che potrebbe procurarmi un EDEMA ANGIONEUROTICO, il terrore, oltreché strizzarmi violentemente il tratto urinario mi manda lungo e disteso prima ancora di farmi boxare e catenare dalla MINOCICLINA CLORIDRATO.

Il dottor Birillo ha aggiunto che a questa cura dovrebbe sottoporsi anche il mio partner altrimenti non serve.

Io e il ganzopupo poi siamo tornati insieme tranquilli. Ora va tutto bene, lui già quando si alza la mattina mi manda un segnale: fa la faccia oggi ti scoperò con la bocca e io gli lascio cuoricini dappertutto ché lui così quando va a lavorare che poi torna, li vede così schizzati sui muri e si tranquillizza sul mio amore per lui. Solo un tarlo mi è rimasto: per analizzare la sborra esiste una procedura ben precisa, l’ho scoperto dopo. C’è un laboratorio un po’ più sofisticato dove tu vai apposta perché c’è un infermieruccio certosino, verdevestito pure lui, che con molto garbo ti chiede di sdraiarti su una barrella che al confronto con quelle di prima ti sembra un lettone FRAU con materasso EMYNFLEX, ti invita ad estrarre il joystick e con una cannula tampone che ti infila tra glande e prepuzio, proprio in quell’interstizio lì, scende giù giù a prelevarti una goccina. Questo è un metodo molto più scientifico di quello che invece è stato imposto a me.

Ora, quando ti chiedono di spararti una sega negli stanzini dell’umanità, pur essendoci un’alternativa più comoda, vuol dire che c’è qualcosa che non va prima nel dottore che impone coglionate e poi nel mondo tutto.

fine

funghi patogeni

Assente giustificato /3

Ci dividiamo: io torno a dormire a casa di mia madre.

Una sera poi proviamo a uscire e si finisce a mazzate, lui si ritira alle undici. Mi telefona alle undici e mezza: “Ho preso l’EN per dormire, bastardo!”. “Quante gocce?” “Non so, la dose me l’ha fatta zia Bice.” “E chi cazzo è mò ’sta zia Bice?” gli fracasso nel telefono. “Niente una mia zia molto comprensiva. L’ho chiamata io per confidarmici e per avere qualche consiglio.” Poi si riattacca con la solita lite. Lui mi fa scusa ma la terapia l’hai finita, no? E insomma la lagna è che io lo sto rimuovendo, che ho bisogno di altre strade e che dovrei provare a distrarmi.

“Tesoro, cerca di capire” sospiro di implorazione. Non so dirgli altro. In realtà la sintomatologia che accusavo ai tempi della batteriuria persiste. Sul glande corroso da un continuum torrentizio un bruciore promosso e tenacemente alimentato dal piscio in piena. Tutto questo mi fa l’uccello proprio privo di stimoli.

“Pupo guarda che mi sento ancora sintomi.” Potrebbe suonare come una scusa, l’ennesimo pretesto per dare un alibi alla mia latitanza sessuale. Poi capita non so come che sto meglio, cioè il cazzo mi dà una risposta anche grazie all’aiuto di video porno. Esco col pallino di scoparlo finalmente. Siamo al motel A-14, così giusto per provare nuove sensazioni, nel letto mi accingo a piantarglielo e a farmelo a sbafo quando all’improvviso mi prende il rogo: uno sbalzo di temperatura interna, una botta di calore. L’erezione che si traveste da metalmeccanico scioperante. La mazza mi fa da quattordici a cinque centimetri in due virgola cinque secondi netti. Depressione. Ma stavolta decido di non starlo neanche a sentire ché la fava mi arde crematoria, il baccello tutto mi brucia da morire e tutto si fa più preoccupante per me. Torno a casa determinato che l’indomani consulto un urologo. Infatti appena sveglio acciuffo l’urin tainer e procedo al travaso sifonandoci dentro un mezzo litro di rosso rosso (un sangiovese praticamente). Porto il piscio al policlinico per un’altra urinocoltura. Poi sotto una raccomandazione vado dal dottor Cirillo. “Dimmi tutto.” E vado con la descrizione. “Senti”, fa il dottore dopo aver ascoltato attentamente, “dobbiamo fare l’esame dello sperma.” Già mi scappa da ridere a ipotizzarne la procedura. Mi metto pure in allarme perché se dovesse chiedermi di dar giù di manovella sarebbe un vero carnaio per il mio organismo che già non mi s’attiva più con pupo, figurati come mi s’armerebbe questa mattina il cazzo mio bruciacchiato e lo sento proprio che è un cazzo sbagliato questa mattina e privo di sensibilità.

funghi patogeni

Assente giustificato /2

funghi patogeni

Assente giustificato /1

Aurelio era controllore alla Ferrotranviaria. La sua vita andava assumendo accenti disperati. Lui e il suo compagno erano molto gelosi l’uno dell’altro e facevano quelle follie tipiche dei ragazzi quando sono così nel pieno di quella loro forza che chiede soltanto di essere dissipata. Aurelio centrifugava un’esistenza appena turbata in un delirio di parole, un guazzabuglio di sintassi, un pastone di sentimenti. Con risultati patetici, peraltro:

E come cristo accade che questo cazzo mi si mette a giocare a nascondone? Diventa un vero latitante. Mi fa passare un fottio di pene. Non mi si rizza più col pupo. Lui va in angoscia, io in parangoscia. E mi pesa al culo ’sto fatto. ‘Sto muscolo del cazzo ancora mi rimane inerte, un’appendice dispettosamente senza vita. “Tu mi stai rifiutando” comincia a lamentarsi il mio ganzopupo. Io gli chiedo di capire. La prima volta che è andata buca gli ho detto che ero stanco, lui non lo sapeva ma per me era la sesta sera di seguito che avrei dovuto scoparmisi. Non lo sapeva perché le cinque sere precedenti non avevo fatto altro che girellare per travesta. Quella prima volta che gli ho dato forfait lui s’è fatto pas de problèmes, mi ha preso e detto: “Te la scopo io dentro un po’ di verve, dentro ’sto cumulo di carne andata a male”.


La seconda volta che ho cileccato gli ho detto però che avevo bruciore e che facevo piscia a torrenti. Non è servito, aveva sospetti che non mi piacesse più, che non me lo volessi filare più. Una giornata, due, tre, le ho passate a fare la spola tra il pullman e i campi di finocchio dove facevo fermare per andare a pisciare. Nel frattempo faccio l’orinocoltura e in effetti scopro che ’sta mala presenza c’è: escherichia coli, centomila fottutelli batteri rompipalle scesi a impestarmi le urine. Io esagero, comunque il biologo mi dice che l’infezione è una stronzata, lieve e curabilissima. Mi rimpinzo di antibiotici, bactrim, sebercim, picillin intramuscolari, ecc. E fermenti lattici vivi, redivivi, morti ammazzati… Il piccolo mio tesoro è in stato di allerta; riesce a convincersi che dopotutto c’è una patologia che mi fa soffrire. Comunque mi alterna fasi di buon umore a fasi di risentimento e cattiveria. Frattanto il cazzetto mi sembra morto. A fine terapia riprova a sondarmi lo stato di arrapamento e, ça va sans dire, lo stato della mazza. Tra me e me sto già pensando alla scusa da imbastire. Infatti ancora cilecca, e giù di nuovo con dolorose polluzioni cerebrali. Si litiga per ogni sputazzella. Casinando si fugge per strada. Si urla come ossessi su ogni argomento, devastati dalla sclera.

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